Come calmierare l’epidemia delle riunioni chilometriche

Appena laureati ci si muove nel mondo del lavoro con una concezione “h24 7/7”: man mano che si va avanti, si hanno più anni di esperienza alle spalle ma sempre meno anni di vita da vivere: a questo si aggiunge l’importanza sempre maggiore di trovare un corretto bilancio fra vita professionale e vita familiare per cui la gestione del proprio tempo (sia a lavoro che fuori) diventa un fattore chiave della propria soddisfazione.

Nella nostra giornata di 24 ore, almeno 8 sono dedite all’attività lavorativa ed in una moltitudine di professioni almeno il 60% del tempo (5 ore al giorno) è composto da riunioni ..

Chi ha la fortuna di fare un lavoro dove può gestire in prima persona almeno l’80% delle riunioni a cui partecipa (quindi 4 ore al giorno), può guadagnare 2 ore cercando semplicemente di dimezzarne la durata.

Considerando che c’è una legge “semi-scientifica” secondo cui l’uomo tende ad espandersi nel tempo che ha a disposizione, dimezzare la durata delle riunioni è relativamente semplice seguendo qualche buona pratica tanto apparentemente talebana quanto enormemente efficace:

– Mai coinvolgere più di 5 persone (se ci fate caso anche quando sono in 20, fra gente che guarda il cellulare e gente che sta pensando ad altro, i partecipanti realmente “attivi” non sono mai più di 4 o 5): se serve più partecipazione usate la regola dell’80/20 e fate partecipare solo il 20% di persone che possono risolvere l’80% dei problemi (gli altri li contattate offline).

– Mai fissare una riunione senza un’agenda preventiva di argomenti di cui discutere (massimo 4/5 punti con responsabilità definite)

– Mai utilizzare o far utilizzare PC e smartphone (regola per la concentrazione ma anche di buona educazione)

– Mai consentire sproloqui o manifestazioni dell’io: in una riunione si discutono solo cose che devono essere fatte o risolte e non cose che sono già chiuse (per dare soddisfazione ai “primi della classe” potete utilizzare la pausa caffè..)

– Educare preventivamente: le persone devono prepararsi prima, avere il dono della sintesi ed interagire fra loro riguardo l’unico scopo dell’incontro: risolvere problemi (sembra banale ma alla prossima riunione fate caso a quante volte si “devìa” da questo punto)

– Stabilire tempi definiti: non più di 5 minuti se l’oggetto riguarda chi partecipa alla riunione e non più di 10 per argomenti più complessi che riguardano catene di azioni che coinvolgano persone esterne al meeting (il famoso 80% residuo..)

Anche se non ci sono prescrizioni standard, nella maggior parte dei casi una riunione non dovrebbe mai durare più di mezz’ora.

Come sempre l’unica regola davvero valida è quella del buon senso: le riunioni sono buchi neri di energia ed occasioni in cui si consuma non solo il proprio tempo e ma anche quello altrui (motivo per cui ottimizzarle è non solo una necessità personale ma anche una questione di rispetto dei propri colleghi o collaboratori).

… tutto questo senza trascurare un fattore fondamentale: un meeting di un’ora e mezza con 20 persone che costano ad un’azienda una media di 50€ l’ora, provocano una perdita pari allo stipendio mensile di un buon operaio.. (considerazione che al netto dei costi contribuisce a spiegare l’ancestrale ostracismo verso i colletti bianchi).

Lavorability



di M.Montemagno pag 246 2/02/2020

Libro sintetico, essenziale con diverse citazioni scopiazzate da altrettanti libri, testi o frasi fatte.

E’ un libro autostampato il cui intento vorrebbe essere quello di definire le 10 competenze per affrontare i lavori del futuro ma che citazioni celebri a parte, è scarno ed assolutamente privo di contenuti sostanziali o di valore.

Molte pagine bianche ed una dimensione del carattere eccessiva, cercano di riempire invano gli spazi di una pagina vuota e di ingrossare il libro come un pavone con quattro piume che cerca di corteggiare la femmina.

Peccato perchè almeno sulla carta bisognerebbe risparmiare..



Perchè i leaders della Silicon Valley vestono informale..

Steve Jobs ha fondato Apple nel 1976, ha avuto 130000 dipendenti  e la sua azienda ha realizzato quasi 60 miliardi di dollari di profitti nel 2018.

Mark Zukerberg ha fondato Facebook nel 2004 ed ha un patrimonio personale di 63,8 mld di dollari e circa 38000 dipendenti.

Sono forse tra gli uomini più emblematici dei nostri anni eppure come gli altri leader delle aziende più grandi del mondo (come Jeff Bezos di Amazon, Bill Gates di Microsft o Larry Page e Sergey Brin di Google) hanno una cosa in comune: lo stile nel vestirsi.

Ultimamente, per questioni di emulazione, questa moda del minimalismo si sta espandendo oltreoceano ma come al solito qui da noi procediamo più per imitazione che non per condivisione del principio che invece ci sta dietro..

Different thinking? Io lo definirei più un “lean thinking”  ..

Al di là della cultura e del fatto che quando una persona raggiunge queste posizioni non ha più bisogno di presentazioni (nè conseguentemente di formalismi od obsoleti orpelli che rispondano a questa necessità), il motivo principale sta in un fattore endemico: vestire implica introdurre una variabile nella propria vita e dover impiegare tempo e risorse per un qualcosa che si ritiene abbia un’importanza relativa.

Il leit motiv e l’ossessione dei leader moderni è la gestione del tempo e l’efficacia nel processo decisionale: l’ottimizzazione della prima e la velocità della seconda dipendono da quante ed a quali cose diamo importanza nella nostra vita.

In un iter che sembra seguire un preciso algoritmo, tutte le persone che ho nominato prendono centinaia di decisioni durante la propria giornata ed a differenza di molti altri stabiliscono minuto per minuto quali sono le decisioni che vale la pena prendere (e quindi a quali cose prestare attenzione e dedicare del tempo) e quali no.

Vestire è per uno smart leader un aspetto secondario (a meno che il proprio businness non sia nel settore della moda)

ha fondato Facebook nel 2004 ed ha un patrimonio personale di 63,8 mld di dollari e circa 38000 dipendenti.

Sono forse tra gli uomini più emblematici dei nostri anni eppure come gli altri leader delle aziende più grandi del mondo (come Jeff Bezos di Amazon, Bill Gates di Microsft o Larry Page e Sergey Brin di Google) hanno una cosa in comune: lo stile nel vestirsi.

Ultimamente, per questioni di emulazione, questa moda del minimalismo si sta espandendo oltreoceano ma come al solito qui da noi procediamo più per imitazione che non per condivisione del principio che invece ci sta dietro..

Different thinking? Io lo definirei più un “lean thinking”  ..

Al di là della cultura e del fatto che quando una persona raggiunge queste posizioni non ha più bisogno di presentazioni (nè conseguentemente di formalismi od obsoleti orpelli che rispondano a questa necessità), il motivo principale sta in un fattore endemico: vestire implica introdurre una variabile nella propria vita e dover impiegare tempo e risorse per un qualcosa che si ritiene abbia un’importanza relativa.

Il leit motiv e l’ossessione dei leader moderni è la gestione del tempo e l’efficacia nel processo decisionale: l’ottimizzazione della prima e la velocità della seconda dipendono da quante ed a quali cose diamo importanza nella nostra vita.

In un iter che sembra seguire un preciso algoritmo, tutte le persone che ho nominato prendono centinaia di decisioni durante la propria giornata ed a differenza di molti altri stabiliscono minuto per minuto quali sono le decisioni che vale la pena prendere (e quindi a quali cose prestare attenzione e dedicare del tempo) e quali no.

Vestire è per uno smart leader un aspetto secondario (a meno che il proprio businness non sia nel settore della moda)

Come cambia il concetto di aiuto dei genitori nella società moderna

La maggior parte dei genitori delle persone della mia generazione, ha vissuto il boom economico del periodo post-bellico: un periodo felice dove l’economia pompava tanto da far sembrare la guerra da poco passata un lontano ricordo.

Chi ha vissuto negli anni ’70, ha vissuto in un mbiente relativamente positivo, dove anche chi faceva l’operaio in fabbrica poteva garantirsi un futuro, una famiglia ed una casa.

Il fatto poi di provenire da famiglie che avevano  vissuto la guerra ha trasmesso loro il concetto del risparmio. E’ così che la maggior parte dei nostri genitori, in un ambiente favorevole e con una acquisita mentalità da “formica”, ha accantonato risparmi da investire in future, possibili necessità.

Il senso di “dare una mano” ai figli lo hanno quindi in qualche modo ereditato. La società ed un periodo di crescita sopra la media ha fatto il resto.

Il concetto di “dare una mano” per i nostri genitori è quindi sempre stato per la maggior parte associato al fornire un aiuto economico per l’acquisto di una casa perchè questo è quello che per loro rappresentava   la sicurezza in un mondo relativamente stabile (“con un lavoro ed una casa sei a posto per tutta la vita”).

Ma il mondo dagli anni ’80/’90 ad adesso è cambiato completamente: la crisi economica ha abbattuto quasi totalmente la nostra capacità di risparmio e ridefinito i valori dei beni immobili (resi più volatili e meno stabili verso una tendenza al ribasso complessivo).

La globalizzazione ha fatto il resto, sconvolgendo interi mercati e cambiando il concetto di un lavoro che da fisso si sta facendo sempre più “mobile” sia temporalmente che fisicamente.

Il cambio è così radicale che in completa antitesi con quanto era valido nel XX secolo, mantenere un posto per più di qualche anno diventerà uno svantaggio così come non muoversi dalle vicinanze  della propria città o non diversificare le proprie competenze.

I nostri figli più che di una casa avranno  bisogno di formazione per acquisire quelle che sono già oggi le caratteristiche fondamentali del futuro: indipendenza, educazione all’errore e all’insuccesso, apertura mentale, assenza di pregiudizi e conoscenza del mondo.

Avranno bisogno di viaggiare, veder cosa succede dall’altra parte del mondo (non solo ad Ovest in America ma anche ad Est verso la Cina) e sperimentare soluzioni per rispondere ad esigenze di mercato che cambiano alla velocità della luce.

Il mondo che abbiamo vissuto dopo la seconda guerra mondiale è stato un mondo in crescita ed abbastanza stabile: il mondo del ventunesimo secolo sarà invece un mondo liquido in progressivo allontanamento dal concetto di “possesso”. Teleriscaldamento, multiproprietà, mobilità condivisa, computer che lavorano insieme, formazione ed informazione in rete, robotica, smartworking e luoghi di lavoro sempre meno fisici sono una realtà già oggi e ci sono tutte le premesse perchè costituiscano la nuova normalità.

Nella parte di America che, non senza contraddizioni,  sta trainando il mondo, l’investimento in formazione è al primo posto: nonostante sia appannaggio ancora di pochi eletti, molti puntano sulle università più prestigiose del mondo come Berkeley, Yale o Standford (incubatrice delle start up della Sylicon Valley da cui provengono il 90% delle App che utilizziamo).

I prestiti bancari per l’accesso a queste università (le cui rette annuali possono agevolmente superare i 50 mila dollari) stanno raggiungendo negli Stati Uniti i livelli dei valori dei mutui immobiliari.

Senza arrivare a questi estremi, è chiaro come le nuove tendenze rendano l’investimento nella crescita dei nostri figli (che oltre all’università comprende ancora prima corsi di lingua e di formazione, manuali, viaggi, vacanze studio etc.), un qualcosa che alla lunga avrà molta più importanza di quello fatto su qualsiasi bene immobile.


Perchè dovremmo farlo ora (non è quasi mai troppo tardi)

C’è un’interessante statistica che dice che la maggior parte degli intervistati in punto di morte hanno avuto pochi rimpianti per quello che  hanno fatto ma tantissimi per quello che non hanno fatto.

L’aspettativa di vita si allunga e tutti credono di poter battere l’unica forza ineluttabilmente democratica dell’universo: il tempo invece è implacabile, non guarda alle generazioni nè ai patrimoni e non fa distinzioni sociali, religiose o sessuali.

A dire il vero un po’ di distinzioni sessuali le fa, visto che altrettante celeberrime statistiche confermano la maggior aspettativa di vita delle donne rispetto agli uomini… (con buona pace del sesso che si considera “forte”).

Ma a parte i dettagli, è inconfutabile che nel 99% dei casi la vita è assimilabile nella migliore delle ipotesi ad un metro: una stringa di 100 centimetri che metaforicamente può rappresentare il nostro percorso in questo mondo (sostituendo i centimetri con gli anni).

E così dovremmo periodicamente fare un punto della situazione e posizionarci all’interno del metro misurando quello che abbiamo fatto ma anche quello che non abbiamo fatto.

Anno dopo anno, la parte rimanente del metro si accorcia così come evidentemente il tempo che rimane per fare tutto quello a cui abbiamo rinunciato o che semplicemente abbiamo proiettato in avanti (procrastinandolo).

Il tema è analogo a quello che ho trattato di recente ed è un tema ricorsivo particolarmente importante per la gestione del nostro tempo (e quindi della nostra felicità che ne è conseguenza imprescindibile).

Il punto è che siamo nati per decidere, in una parte di mondo in cui possiamo permetterci ancora il lusso di fare delle scelte e di prendere in mano il nostro destino per evitare di avere rimpianti alla fine della corsa (riconfermando le statistiche).

E’ ovvio che più in là andiamo col “metro” e più saremmo condizionati dalle scelte che abbiamo già fatto negli anni precedenti: alcune strade non saranno più percorribili, molte saranno sconsigliabili a causa del nostro vissuto, delle nostre scelte e delle nostre “non scelte” ma molte altre ancora saranno lì ad aspettare di essere percorse.

E come un aeroplano è più pericoloso a terra che in volo (perchè nato per volare e non per rimanere fermo in un hangar a prendere ruggine), anche noi siamo fatti per vivere e non per avere rimpianti.

Vivere la vita pienamente significa avere il coraggio delle proprie scelte, non rinunciare alle proprie passioni o ai propri sogni (tanto meno se come avviene nella maggior parte dei casi, la ragione della rinuncia è riconducibile ad un giudizio esterno a noi) e decidere ora ed oggi dove vogliamo andare.

Vivere significa decidere, affrontare i bivi e superando le nostre paure e tutte quelle incertezze che trasformano i “posso” in “avrei voluto”.

Il pre-requisito è la conoscenza di noi stessi e di quello che vogliamo fare nella vita mentre la condizione necessaria è la fatica: niente si raggiunge senza sforzo ma vale la pena riflettere se vogliamo spendere energie per inseguire la nostra strada piuttosto che spenderle per sopportare il peso di un rimpianto.

Vivere la vita è un must come lo è non sprecare il nostro tempo a fare cose che non ci piacciono, che non danno valore aggiunto o che non contribuiscono al nostro benessere.

Non c’è un terzo tempo dopo la fine e difficilmente avremo l’opportunità di superare in salute il metro fatto di 100cm: per quello è importante riflettere quotidianamente su quello che facciamo, sulle scelte che operiamo e sull’importanza di non procrastinare.

Situazioni che ci rendono infelici oggi lo faranno anche domani con la differenza che da domani avremmo perso ulteriore tempo per recuperare.

Non è (quasi) mai troppo tardi

Perchè le aziende spingono sul marketing per sopravvivere (l’esempio del “green diesel”)

Perchè le aziende spingono sul marketing per sopravvivere (l’esempio del “green diesel”)

Diesel e green sono un ossimoro difficilmente sostenibile.

Tante aziende che lavorano nel settore petrolifero, all’affacciarsi persistente di concetti quali “ecosostenibilità” e “green economy”, hanno pensato bene di avviare corpose e costose campagne di marketing per la riconversione della propria immagine in accordo alle nuove logiche di mercato.

Peccato che un prodotto intrinsecamente inquinante sia alquanto difficilmente vendibile come ecologico, nonostante gli investimenti in pubblicità (se anche lo colorassimo di verde il petrolio rimarrebbe sempre tale).

Il problema principale è causato dalle logiche di mercato, che richiedono tempi rapidissimi per rispondere alle nuove esigenze e che costringono le grandi aziende a fronteggiare un calo repentino di domanda rispetto ad una situazione che solo un decennio fa garantiva una crescita a doppia cifra.

E’ così che se da un lato c’è un mercato ormai palesemente orientato alla sostenibilità, dall’altro c’è tutta la difficoltà di riconvertire intere produzioni (come per le case automobilistiche è difficile passare da produzioni di motori a combustione interna a motori elettrici, anche per le aziende petrolifere è altrettanto complicato convertire il petrolio all’eolico e via dicendo).

Una riconversione richiede un lunghissimo periodo in cui le aziende devono “sopravvivere” con relativi pochi incassi provenienti da un mercato in ribasso (domanda in diminuzione per i vecchi prodotti) e con la contemporanea necessità di investire massicciamente in ricerca e sviluppo di nuove soluzioni.

E’ evidentemente un’impresa titanica tanto più difficile quanto più le aziende sono partite in ritardo con il proprio adeguamento (adagiandosi nella comfort zone degli alti profitti che il petrolio garantiva negli anni d’oro).

E’ così che per queste aziende poco lungimiranti, la salita appare più difficile e costringe ad azioni discutibili di ristrutturazione e re-branding per dare un colpo di coda e cercare di vendere i vecchi prodotti spacciandoli per sostenibili.

Il problema è che la proiezione della propria immagine aziendale verso che quello che si delinea come il futuro (ovvero la green economy), non si cambia col colore del logo o con le etichette, ma con processi decisionali alla base e “riforme” strutturali che ridefiniscano i modelli di businness ed i prodotti dell’azienda. 

C’è troppa fretta di rendere green ciò che intrinsecamente non lo è ed appare evidente come il marketing non possa riuscire a sopperire in pochi mesi quello che richiede anni di sviluppo per una completa riconversione.

Le aziende che per “core businness” non fanno prodotti green, dovrebbero in parallelo sia lavorare sul rendere più sostenibili i vecchi prodotti (ma trattandoli come tali), sia investire in ricerca e sviluppo sui nuovi, con un rapporto incrementale progressivamente sempre più orientato ai nuovi mercati.

Solo così si può costruire una credibilità che è sì costosa ma anche vincente nel lungo periodo.

Difficile per le logiche di mercato, ma necessario per un futuro realmente “sostenibile”.

Alex Ferguson: la mia vita

Alex Ferguson: la mia vita (427 pag.) 07/01/2020

“decisi subito che, per guadagnarmi la fiducia e la lealtà dei giocatori, dovevo prima offrire loro la mia: questo legame è la base su cui si fondano grandi imprese”

Un uomo d’acciaio Alex Ferguson, ma anche una grande personalità e l’unico uomo nella storia del calcio moderno ad essere riuscito a tenere la panchina di un grande club per 26 anni.

Fra alti e bassi, sconfitte e vittorie, è sicuramente una persona che ha saputo rinnovarsi nel corso di tutta la sua lunghissima carriera, pur mantenendo dei punti saldi che ne hanno fatto un riferimento in tutto il mondo.

All’interno della biografia, che più che altro è la cronistoria del calcio inglese e della premier league dal 1987 al 2013, si scorgono tratti di un personaggio meticoloso e duro ma al contempo sempre pronto a difendere non solo i valori del club che rappresentava ma anche tutti i membri che lo componevano.

Scozzese di nascita e cresciuto nei quartieri umili di Glasgow, sulle origini  dei suoi giocatori diceva: “le radici non dovrebbero mai essere un ostacolo per il successo ed un’origine modesta può essere un vantaggio piuttosto che una difficoltà”.

Alcune delle frasi all’interno del libro sono sintomatiche dei suoi stati d’animo e spiegano molte delle sue scelte in campo e fuori:

  • “Allenare significa affrontare una serie infinite di sfide, la maggior parte di esse ha a che vedere con la fragilità dell’essere umano”
  • “Una qualità che avevo era che sapevo prendere una decisione, semplicemente sapevo decidere sempre”
  • “sul campo di battaglia non sei la stessa persona che sei in chiesa”

Un approccio pragmatico quello di “Sir Alex”, duro con gli avversari ma contemporaneamente benevolo verso i suoi giocatori ai quali non faceva mancare carota e bastone in egual misura:

  • “se un giocatore mi chiedeva un giorno di permesso doveva esserci un buon motivo: se c’era un problema volevo contribuire a trovare una soluzione”
  • “proteggere i giocatori era il mio lavoro.. non potevo mettermi contro i miei giocatori, dovevo trovare soluzioni alternative: a volte dovevo multarli o punirli ma non l’avrei fatto mai al di fuori dello spogliatoio”

E se da un lato appare difensivo, dall’altro teneva ben saldo il timone:

  • “l’unica cosa che non avrei mai permesso era la perdita del controllo perchè il controllo era la mia salvezza”
  • “sapevo che nel momento in cui un giocatore avesse provato a prendere il controllo della squadra, allora saremmo stati spacciati… nel momento in cui minacciano la tua autorità allora devi sbarazzarti di loro”

Nonostante il carattere duro e spigoloso, apprezzava comunque le personalità “eclettiche”:

  • “nonostante dessi l’immagine di uno che pretendeva sempre obbedienza, mi piacevano le persone con un pizzico di impertinenza: davano freschezza all’ambiente e c’è bisogno di un po’ di sicurezza ed energia.. se sei circondato da persone che hanno paura di esprimersi, avranno la stessa paura anche sul campo, durante le partite e nei momenti importanti”

Ferguson ebbe un rapporto abbastanza duro anche con la stampa, di cui diceva:

  • “non ho mai avuto confidenza con i giornalisti.. mi ero guadagnato molte prime pagine nel corso degli anni.. devi accettare che se ti chiamano genio probabilmente non avranno problemi a darti del pazzo”
  • “quello che conta è vincere, non mostrarsi intelligenti in un’intervista”

Sulle sconfitte:

  •  “A volte le sconfitte sono il risultato migliore e reagire alle circostanze avverse è una qualità: se ti limiti a subire le scofitte puoi star certo che continueranno ad arrivare”
  • “dopo che avevo detto la mia sulla sconfitta nello spogliatoio dicevo a me stesso “dimenticale, è passata”… quando le gente veniva nel mio ufficio dopo una sconfitta mi assicuravo sempre che ci fosse una bella atmosfera, nessuna tristezza, nessuna recriminazione contro l’arbitro”

A chi nel corso della lunga carriera lo accusava di essere cambiato diceva “se sono cambiato è perchè oggi non è ieri… non sarei riuscito a sopravvivere se non fossi cambiato”.

Sul punto del ritiro definitivo diceva: “le corse, i libri ed i vini mi hanno insegnato a staccare.. a 70 anni se non ti mantieni attivo crolli velocemente”.. “devi avere qualcosa da fare quando ti ritiri e da fare subito, non dopo una vacanza di tre mesi”… “con l’età devi gestire le energie, mantenerti in forma: la gente dovrebbe curare il proprio fisico ed alimentarsi correttamente”.

In tutta la sua carriera, nel suo modo di allenare ma anche di affrontare gli avversari ha sempre ricorso ad una fine psicologia:

“dire che finivamo sempre la stagione con un ritmo più alto portava alla convinzione che questo si avverasse: il concetto si insinuava nella mente dei giocatori e diventava un tormento per gli avversari: era una profezia autoavverante”.

Negli ultimi 15 minuti indicavo sempre l’orologio.. era una strategia.. non facevo caso al cronometro ma contava l’effetto che aveva sulla squadra avversaria: tutti sapevano che il Manchester aveva talento nel segnare negli ultimi 20 minuti e questo gesto spaventava gli avversari”.

“c’è una dimensione psicologica anche nella gestione dei giocatori… nel caso abbiano atteggiamenti sbagliati è utile cercare di guardare le cose anche con i loro occhi: sei stato giovane anche tu, per cui mettiti nei loro panni”

“se mi confrontavo con un giocatore che aveva avuto un rendimento basso dicevo “hai giocato una partita orrenda” ma poi aggiungevo “per un giocatore della tua abilità”… criticavo ma controbilanciavo con l’incoraggiamento…” perchè fai così? Sai fare di meglio..”

Perchè non dovresti aspettare ad aprire una buona bottiglia..

Questa bottiglia di Sautern mi è stata regalata da una persona con cui ho avuto a che fare anni fa per la costruzione della mia casa.

Dice sia una bottiglia piuttosto “pregiata” (almeno per il mio livello basico di consapevolezza su vini ed affini..) e che sia particolarmente adatta ad essere degustata in abbinamento con un pasto a base di formaggi.

E’ una bottiglia alla quale ho inevitabilmente associato ricordi importanti e per  molti anni (e la storia va avanti ancora come potete notare dal rigoroso sigillo ancora presente sul tappo), ho aspettato ed aspettato l’occasione giusta per aprirla.

Un occasione che non arrivava mai, non solo per la particolarità del vino stesso (non molto spesso faccio pasti a base di formaggi”), ma anche perchè nella mia incoscienza non trovavo mai un’occasione “particolarmente adatta” per poter dare alla bottiglia l’importanza che ritenevo meritasse.

Il risultato è che dopo molto tempo, la bottiglia è ancora lì intatta, a troneggiare in mezzo a molte altre bottiglie che invece vengono aperte regolarmente durante cene con amici di assoluta rilevanza.

A guardare bene in dispensa, la stessa fine è toccata ad una bottiglia di Amarone riserva, comprata ben 15 anni fa ed ancora fieramente presente in cantinetta..

Ogni volta che arriva un momento papabile, tendo a rimandare pensando che la bottiglia sia troppo importante o che l’occasione non lo sia abbastanza.

Visto che si tende inevitabilmente a perpetrare gli errori familiari, se non deciderò presto di aprirla andrà a finire come è finita a mio padre che aveva iniziato a collezionare bottiglie del 1977 mai aperte (ed ora diventate inevitabilmente aceto).

Una buona bottiglia dovrebbe essere sempre degustata per prima… alla prima occasione e non per un occasione importante che non verrà mai.

Rimandarne l’apertura vuol dire proiettare l’aspettativa di una grande occasione più in là nella linea temporale, rinunciando a riconoscere che c’è sempre un valido motivo per “sbocciare”, festeggiare ed in definitiva per “vivere”.

Aprire una bottiglia tempestivamente è come vivere nel presente ed assaporare la vita giorno dopo giorno: non sai mai se e quando potrai degustarla per cui vale la pena di viverla nell’istante, di godersela fino all’ultima goccia per poi lasciarla inevitabilmente andare via velocemente, conservandone il ricordo e brindando alla prossima “buona occasione”.

Una bottiglia di vino è come la felicità: non devi proiettarla in un domani tanto incerto quanto potenzialmente deludente.. se stai bene con te stesso e sei in salute questo dovrebbe già essere sufficiente per rendere il presente “l’occasione giusta”.

PNL applicazioni di I.Moretti e V. Palma

PNL: applicazioni (come attivare e diffondere risorse)

05/01/2020  (voto 5/10)

Un trattato che rappresenta un’infarinatura sulle tecniche della programmazione neuro linguistica (PNL), la scienza che parte dall’analisi dei processi della mente umana e si propone di modificarli per raggiungere relazioni di successo.

Un testo fra il teorico ed il tecnico che non entra troppo in dettaglio ma che fornisce concetti base di questa tecnica sempre più attuale, in un mondo interconnesso dove l’interazione fra le persone diventa sempre più importante.

La PNL tratta tematiche riguardanti la riprogrammazione della mente come oggetto attraverso il quale percepiamo la realtà: alla base c’è una profonda analisi del rapporto dell’essere umano con il mondo esterno e con il mondo interiore, in un intreccio che mette al centro l’uomo come artefice unico dell’efficacia in ogni tipo di relazione sociale.

Il libro parla di strumenti e strategie di applicazione che hanno come contenuti:

  • La progettazione del cambiamento (analisi dello stato presente e di quello desiderato, mappa degli obiettivi, decisioni)
  • Le tecniche per il cambiamento (analisi di se stessi e dei propri interlocutori, flessibilità e versatilità come requisiti fondamentali, test di verifica/feedback e conseguenti azioni)
  • Il rapporto con il tempo (la temporalità individuale e di gruppo, la percezione linea del tempo e la sua gestione)
  • L’apprendimento continuo (i diversi tipi di conoscenze, il processo formativo, le convinzioni e la concezione di sè)
  • Le aree ed i modelli per l’intervento (comportamenti, valori, credenze e mentalità, campi di utilizzo ed esperienze di applicazione)
  • Il “rapport” (relazione, realizzazione e connessione, dinamiche comunicative nelle organizzazioni aziendale e fra gruppi)

Un testo che esplicita alcune tecniche per lavorare su caratteristiche interpersonali quali empatia e comunicazione assertiva.

Perchè il 2020 non sarà migliore del 2019 ..

Parto da un’esperienza personale in cui il 2019 è stato un anno bello ma molto difficile.

E’ stato un anno dove ho dovuto metabolizzare un sacco di fallimenti non riuscendo nel contempo ad aver fatto niente degno di “memoria”.

Eppure il 2019 ha avuto un suo ruolo ed una sua importanza: mascherato come un anno inconsistente e privo di elementi “rimarchevoli”  o significanti  “variazioni” (obiettivo di un’ostinata ossessione personale ma anche figlia del nostro tempo), è stato un anno di riflessione.

Tendiamo a non considerare l’importanza dei nostri momenti “no”, momenti in cui apparentemente ci sembra di non aver progredito, di non aver aggiunto niente alla nostra vita o di aver “frullato a vuoto” (cosa che a dire il vero a me sembra di fare spesso anche quando sono convinto di aver realizzato qualcosa).

E’ così che riponiamo tutte le nostre aspettative “nell’anno che verrà”, il che è come spostare la nostra speranza e buttarla un anno più avanti (per poi ritrovarci puntualmente a fare lo stesso tipo di considerazioni per l’anno ancora successivo).

E’ esattamente così che la nostra vita passa veloce e la sensazione di insoddisfazione aumenta con l’aumentare dell’età e quindi inevitabilmente anche dei nostri acciacchi fisici e mentali.

Gli anni che classifichiamo come “no” (come se poi ci fosse un limite temporale che definisce i nostri momenti negativi da quelli positivi), sono anni che dovremmo prendere come una benedizione e non come la dimostrazione di un fallimento: nel 2019 ho imparato molto più di me stesso che nei 5 anni precedenti, ho imparato a fare un po’ di ordine nell’enorme caos di una mente iperattiva (che mi accompagna con alterni successi da una vita)… ho avuto il tempo di coltivare passioni che avevo completamente trascurato e di analizzare quelli che sono ancora grossi limiti alla mia realizzazione personale.

E’ stato un anno dove sono riuscito a contemplare di non essere bravo come pensavo in moltissimi aspetti, di aver bisogno di dare più che di ricevere, di dover fare ancora molta strada nell’educazione di mio figlio (e della mia famiglia in generale) identificando alcuni delle miriadi di punti su cui “lavorare”.

Per questo il 2020 non sarà migliore del 2019… il 2019 a rivederlo bene è stato un anno di incredibili rivelazioni che forse hanno preprarato il terreno per un impegnativo 2020 dove dalla constatazione sarò costretto mio malgrado a passare “all’azione”:  un’azione controllata, guidata da consapevolezza e non dettata dall’emozione del momento.

La strada per fissare il pensiero sulle cose realmente importanti è ancora lunga ed è superficiale assegnare au un anno piuttosto che ad un altro la “responsabilità” delle cose belle come delle cose brutte.

D’altronde il titolo di questa riflessione porta di per sè fuori strada: al di là di quelle che sono le aspettative, nessuno di noi può sapere come sarà “l’anno che verrà”… non sapremo se sarà compiuto o meno, non abbiamo una ricetta o delle soluzioni per tutte quelle cose che ci aspettano (e di cui non conosciamo l’esistenza).

Quello che possiamo solo sperare è di aggiungere elementi alla mappa di noi stessi, conoscendoci di più, focalizzandoci sui nostri obiettivi e sulle cose che riteniamo veramente importanti e cercando di anticipare così le nostre reazioni a ciò che è ineluttabilmente (e meravigliosamente) imprevedibile.

In definitiva gli anni in più dovrebbero servire proprio a questo: a costruire un mattoncino in più di una consapevolezza che può aiutarci in qualsiasi situazione, indipendentemente da quello che succederà…. nell’anno che verrà…