I migliori professionisti che ho conosciuto…


Se dovessi dividere in due gruppi le categorie di manager o leader con cui ho lavorato (in base ai risultati e all’impatto che sono riusciti a portare), direi che ci sono due macro-aree che sono particolarmente significative:

– quella di chi si circonda di colleghi o collaboratori che li fanno sentire migliori (accarezzandogli l’ego);

– quella di chi si circonda di colleghi o collaboratori che li fanno diventare migliori.

In questa apparentemente sottile differenza verbale c’è un enorme differenza sul piano pratico.

La prima categoria tende inevitabilmente a circondarsi di persone meno brillanti per riuscire a emergere più facilmente (entrando in una spirale autoreferenziale e involutiva); la seconda cerca attivamente persone migliori per imparare e migliorare (entrando in una spirale evolutiva).

Jim Rohn diceva che “siamo la media delle cinque persone che frequentiamo di più” e Goethe prima di lui scriveva: ““Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”.

Le nostre relazioni comunicano le nostre “finalità” e sono lo specchio delle nostre tendenze, delle nostre propensioni e, in definitiva, anche delle nostre probabilità di successo in qualsiasi ambito (qualora non viziate da dinamiche diverse da quelle del “merito”).

Come scegliete le vostre collaborazioni?!?


In qualsiasi contesto e in qualsiasi azienda (piccola o grande), chiunque venga scelto per avere un ruolo di guida, di accompagnamento o di leadership dovrebbe essere selezionato in primis per la sua capacità di ispirare, di essere un esempio positivo e di fare da collante fra un gruppo di persone.

Sono propensioni naturali (come l’etica, che non si può “insegnare” ma che deve venire dall’attitudine di una persona), e sono fra le prime che dovrebbero essere ricercate attivamente.

La professionalità si acquisisce, le skills si imparano e le capacità si affinano; ma la propensione a spendersi per gli altri per vederli migliorare ogni giorno o ce l’hai o non ce l’hai.

Qualcuno diceva che bisognerebbe “assumere per attitudine e licenziare per competenza”… e chiunque ambisca a diventare un trainer, un coach, un maestro, un “host”, un team leader o un coordinatore, dovrebbe essere in grado di mostrare la grandezza di chi gli sta di fronte (e non la sua).

Quando collaboriamo con qualcuno a qualsiasi titolo, in NeNet è uno dei primi criteri che utilizziamo.

Nei nostri “chum” c’è una regola implicita che vale per tutti: “lascia l’ego all’ingresso”.

Una norma di buon senso che dovrebbe essere applicata a qualsiasi ambiente di lavoro e che è un pre-requisito indispensabile per attivare l’intelligenza collettiva e raggiungere risultati degni di nota.

Il minimalismo nel business (#31/2024)

“E se la chiave per una vita ricca e appagante non fosse di pensare in grande, ma in piccolo?”

“A volte “abbastanza” (o anche meno) è tutto quello che ci serve”

Una frase del primo capitolo di questo libro, apre a una possibilità diversa rispetto a quanto siamo sempre stati abituati a pensare.

Abbiamo sempre creduto che il fine ultimo di un’impresa fosse quello di crescere costantemente e di aumentare i propri profitti.

Ciò è legato a un’idea di base che la crescita sia sempre positiva e che il fatto che non debba “avere limiti” costituisca un ingrediente indispensabile per il successo.

La cultura consumistica ci induce a pensare che “di più” è sempre meglio… nonostante statistiche abbiano stabilito da tempo che sopra una certa soglia di benessere ciò che viene “aggiunto” non ha molto valore e nonostante quasi tutti nel mondo occidentale dovremmo aver compreso che “più cose” non portano necessariamente più felicità.

Troppo spesso accade che il “più” contribuisce a un maggiore stress e a “più” problemi e responsabilità sia nella vita che nel lavoro.

In tempi di “paradosso della scelta”, di possibilità infinite ma anche di crisi economiche e personali, chiedersi se non abbia senso abbassare le proprie aspettative per vivere una vita maggiormente ricca di altre cose è più di un interrogativo doveroso.

In questo testo si mettono in discussione regole scritte e non scritte, convinzioni, ruoli e idee storicamente considerate inossidabili e incontrovertibili.

Si apre alla possibilità di pensare un’attività da gestire con “meno risorse”, per fare “meno cose” e concentrarsi sullo sviluppo di se stessi: prediligendo alla “crescita ad oltranza”, la possibilità di essere flessibili, gestire i propri orari e avere meno preoccupazioni.

Un testo utile per provare a staccarsi dalle etichette del lavoro che troppo spesso definiscono le nostre identità e condizionano le nostre vite… e per riflettere approfonditamente su noi stessi, su come gestiamo la nostra esistenza e su come indirizziamo le nostre scelte.

“Il genio procede a braccetto con il dubbio”


Ho letto questa frase nel libro “piano B” dei miei amici Luigi e Vittorio e mi sono ricordato che le persone più talentose che ho conosciuto coltivavano deliberatamente il “dubbio” come mezzo per andare oltre, per approfondire, per curiosare e per esplorare nuove frontiere.

Esperienza personale a parte, anche tutti i più grandi innovatori hanno raggiunto risultati eccelsi “andando a braccetto” con il dubbio: è stato così per Fleming, per Einstein, per Curie, per Darwin e per moltissimi altri “geni” o “scienziati” che hanno contribuito all’evoluzione umana.

Noi non siamo geni ma, a maggior ragione, dobbiamo coltivare il dubbio come elemento fondamentale per fare scoprire noi stessi e avere quella consapevolezza tipica di tutte le persone che si sono “realizzate”.

Dovremmo coltivare costantemente il dubbio di non sapere, quello di non aver capito bene, quello che ci porta a investigare o a non fermarsi all’apparenza… e tutti i dubbi che possono spingerci a cercare soluzioni migliori per noi e per gli altri.

Dovremmo “coltivare il dubbio” per non arrivare alla fine col dubbio… di non averci provato.

Scegliere di fare la cosa giusta e non le cose “nel modo giusto”.



In qualsiasi mestiere, in qualsiasi lavoro, in ogni ambito della nostra vita spesso siamo circondati dall’idea di fare le cose “giuste” secondo criteri che a volte non capiamo o non condividiamo, ma che sembrano essere “giusti” perché qualcuno li ha considerati tali (oppure perché “è sempre stato così”).

Spesso siamo in un flusso inconsapevole di convenzioni e convinzioni che ci ha fatto abituare a organizzazioni tossiche, al patriarcato, a società inique o a sistemi non sostenibili.

Ma ognuno nel suo piccolo può fare la differenza cercando di fare “la cosa giusta” quando intuisce che la direzione in cui sta andando porta a una società peggiore o diversa da quella auspicabile.

Nel libro di McRaven “la leadership resa semplice”, c’è un passaggio in cui l’autore dice: “la maggior parte delle persone pensa che talvolta il confine fra ciò che è moralmente giusto e sbagliato possa essere ambiguo.. ma non lo è”.

In mondo complesso, in tutte le cose ci sono prospettive e punti di vista diversi.

Quasi sempre ci sono tre verità: “la mia, la tua e la verità”… ma quando si scende nel pratico e si analizzano a fondo le situazioni e le dinamiche in cui siamo immersi, McRaven ha ragione.

E indipendentemente dal nostro titolo, dalla nostra mansione o da quello che facciamo quando usciamo fuori di casa, ognuno di noi dovrebbe pensare costantemente a cercare di fare “la cosa giusta”, per creare ambienti migliori.

Borsellino 19 Luglio 1940 -19 Luglio 1992

Il dissenso ragionato e il cambio generazionale in azienda…


Un mio collega durante una presentazione ha dato un po’ di numeri sull’espansione del suo gruppo di quasi 200 persone (passato recentemente da un’età media di 49 anni a una di 42).

“Abbiamo assunto tantissimi giovani… ma a differenza di quando siamo entrati noi, adesso sono loro che scelgono le aziende e non il viceversa”.

Non so se sia proprio così ma spesso fuori dalla mia organizzazione mi trovo a lavorare con Gen X o boomer che hanno fatto una carriera straordinaria e che mi dicono la stessa cosa.

La nostra generazione è cresciuta in un mondo più stabile e deterministico: siamo stati educati a fare quello che ci veniva detto di fare, a non mettere in discussione autorità o gerarchie, e a rispondere a un’aspettativa sociale poco propensa al contraddittorio.

Non avevamo molta scelta e non potevamo “non essere d’accordo”: eravamo soggetti a un giudizio unilaterale e dovevamo muoverci su linee piuttosto chiare.

Ricordo ancora la prima volta che da manager a 33 anni ho detto “non sono d’accordo”: ho perso i titoli che avevo guadagnato con tanta fatica e lasciato la poltrona a chi era disposto a stare al suo posto e a prendere il mio dopo aver atteso pazientemente il suo turno.

Era così per tutti e all’epoca era un modo del tutto razionale per mantenere ordine e “organizzazioni ben oliate” che producevano grandi risultati.

Il problema è che questo modo di fare ha dato alla nostra generazione un mindset “resiliente” ma poco innovativo: abbiamo ceduto il passo al conformismo e rinunciato a migliorare le aziende di cui facevamo parte.

Sembra che adesso i tempi stanno lentamente ma progressivamente cambiando: si può dire “non sono d’accordo” con meno timore di essere relegati in panchina e con maggiore possibilità che una nuova idea venga finalmente fuori da un coro sempre troppo unanime di “abbiamo sempre fatto così”.

Il “dissenso ragionato” è una grandissima risorsa su cui si possono costruire società più profittevoli, più eque e più sostenibili… e le nuove generazioni possono spingerci a lavorarci anzichè considerarlo un “tabù”.

Quando useremo il “dissenso ragionato” come strumento di miglioramento per i nostri ambienti lavorativi, forse potremo non temere più l’intelligenza artificiale (che in gran parte si basa su dati prodotti da chi “ha fatto sempre così”).

Come mai è tanto facile avere un’idea ma è tanto difficile realizzarla?


Perchè ci vogliono tempo, pazienza (due risorse molto scarse in questo periodo) e metodo e perseveranza.

Quando ho iniziato a valutare la possibilità di aggiungere “pezzi” al mio percorso professionale trovando un “piano B” e avviando una multicarriera, avevo decine di idee ma non capivo come fare a “metterle in pratica”.

Dopo diversi fallimenti, una start up andata male nel 2017 e diversi altri tentativi sono riuscito a passare lo scoglio della “quarta fase”.

Quale è la quarta fase?

Adam Grant dice che quando siamo sul punto di trasformare un’idea in un progetto attraversiamo 6 fasi:

– Prima fase “Energia e ottimismo”: la fase dell’idea in cui l’entusiasmo è alto e il progetto ci sembra ricco di potenziale.

– Seconda fase “Realismo”: la fase in cui ciò che ci sembrava semplice si rileva più complesso del previsto costringendoci a ridimensionare euforia e impatto.

– Terza fase “Scoraggiamento”: la fase in cui mettiamo fortemente in discussione l’idea, riempiendola di “se” e di “ma”.

– Quarta fase “Depressione”: la fase caratterizzata dalla “sindrome dell’impostore” in cui mettiamo in discussione non solo l’idea ma anche le nostre capacità (e noi come persone);

– Quinta fase “Ripresa”: la fase in cui cominciamo a ragionare più razionalmente ed andare a fondo per cercare risoluzioni a dubbi ed eventuali problematiche vere o presunte (magari aiutati da qualche piccolo risultato);

– Sesta fase “Traguardo”: la fase di completamento del progetto in cui vediamo l’esito del nostro sforzo e il conseguente riconoscimento dato dalla “riprova sociale”.

Generalmente la maggior parte delle persone si ferma al quarto step e rinuncia ad andare oltre…

La quarta fase è la più critica perchè si insinua nelle nostre debolezze e nella nostra psicologia, rendendoci ciechi alle possibilità e non dandoci la forza di cercare attivamente un metodo, chiedere l’aiuto di un professionista o fare leva sul nostro “network”.

Non superarla significa entrare in un “vicolo cieco”, rinunciare a un “piano B” e buttare all’aria tutti i tentativi fatti.

Per approfondimenti sul tema suggerisco la lettura de “il vicolo cieco” e “la pratica” di Seth Godin… o il corso di NeNet che terrò il 25 Maggio su come impostare un piano B (o un nuovo progetto), in parallelo alla propria carriera professionale.

Comunicare come Steve Jobs (#30/2024)

Nessuno nasce oratore e la maggior parte di noi ha il terrore di affrontare un discorso o parlare a una platea di persone…

La buona notizia è che si può imparare a tenere un buon discorso mutuando tecniche e strumenti dai migliori… la cattiva è che bisogna prendere il coraggio a quattro mani e cominciare ad esercitarsi.

In questo libro, che trae ispirazione dai più famosi “Ted talk” del mondo, Carmine Gallo tratta quelli che sono gli strumenti e le tecniche di comunicazione/presentazione utilizzate da Steve Jobs e da altri celebri oratori:

– La creazione di un racconto avvincente: curare la struttura del discorso e impostare una narrazione con un inizio, uno sviluppo e una conclusione.

– La semplificazione: utilizzare la chiarezza nella comunicazione per distillare informazioni complesse in messaggi facilmente comprensibili.

– L’uso delle immagini e delle visualizzazioni: sfruttare immagini potenti e visualizzazioni per supportare i contenuti e rendere le presentazioni visivamente accattivanti.

– L’utilizzo del linguaggio del corpo: dosare sapientemente i gesti per enfatizzare i punti chiave e mantenere l’attenzione del pubblico.

– Il coinvolgimento del pubblico: inserire elementi che coinvolgono gli interlocutori tramite l’utilizzo di domande retoriche, aneddoti personali e riferimenti diretti agli spettatori.

– L’innovazione nella presentazione: implementare nuove tecnologie e approcci per rendere ogni presentazione unica e memorabile.

L’efficacia di un buon discorso o di una presentazione efficace sta nell’iniziare a riflettere e mettere in pratica tutti questi elementi e questo testo è un ottimo punto di partenza.

Se poi volete allenarvi in un workshop esperienziale in presenza, con NeNet stiamo organizzando la seconda edizione del corso “fuori la voce: guida al public speaking” che si terrà a Milano il 14 Dicembre.

Non tutti dobbiamo diventare oratori o speaker, ma tutti abbiamo la necessità di imparare a comunicare efficacemente con gli altri per aumentare la nostra assertività e riuscire a far arrivare il nostro messaggio nel modo più efficace possibile.

La creatività è come il talento: non può essere “cauta”

Potete scegliere di essere cauti o creativi, ma la “creatività cauta” non esiste (George Lois)

Questo è uno dei più grandi limiti alle prestazioni che ci sono nelle nostre organizzazioni (anche quelle che non fanno prodotti “creativi).

Perché?!?

Perché più grande è un’azienda e più ha bisogno di ordine: piu è strutturata e più deve essere cauta… e più è cauta e meno può essere creativa.

Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma sono più dovute alla natura di ciò che si produce (Pixar è diversa da Amazon), che a fattori che fanno parte della logica con cui sono state costruite le nostre società (comprese quelle che non hanno come scopo il profitto).

In sintesi la creatività viene considerata come la dinamite: qualcosa di estremamente potente ma che deve essere maneggiata con molta cura (limitandola e mettendo regole rigide nello spazio in cui si consente di esprimerla).

Il punto vero è che la complessità e il modo con cui abbiamo sempre fatto le cose, creano barriere che non ci consentono di esplorare possibilità diverse.

La creatività non sarà mai cauta… ma se l’ambiente è sano, la gerarchia flessibile, il clima psicologicamente sicuro e la leadership forte… limitare quella che è (ancora) l’unica caratteristica che distingue la nostra specie da quella nascente delle macchine pensanti, potrebbe essere controproducente.

Ps: George Lois è stato uno dei principali artefici della Rivoluzione Creativa che ha cambiato il volto della pubblicità nell’America degli anni Sessanta nonché uno dei personaggi di maggior rilievo nella prima agenzia creativa al mondo e uno dei fondatori della seconda (Wikipedia)

Aver avuto insegnanti con più esperienza, vuol dire avere redditi più alti…

…e aver goduto di un livello di istruzione elevato, incide molto sulle carriere a livello apicale.

Mio figlio può contare sulla migliore istruzione possibile come tante persone dei paesi occidentali.

Quando sarà adulto, se vorrà, potrà contare su un executive coach personale, seguire tutti i corsi di NeNet gratuitamente e ricevere consigli da esperti del mondo del lavoro che potranno accompagnarlo nella strada che deciderà di intraprendere.

Potrà decidere se andare in una di quelle università nostrane che tanto si ispirano ai modelli americani della Ivy League, avere accesso a posizioni privilegiate e frequentare un network di persone che gli aprirà porte per altri inaccessibili.

E tutto questo a prescindere dalle sue qualità.

Purtroppo, ancora oggi, il talento che si misura e” il merito” che attribuiamo nei nostri contesti, sono più frutto del punto di partenza e delle circostanze che della bravura di chi viene valutato all’interno di gruppi ristretti di privilegiati.

È sempre stato così ed oggi, a 135 anni dall’istituzione della “festa dei lavoratori”, dobbiamo essere contenti che questo effetto sia solo una coda del capitalismo ereditario rivolto alle caste nobiliari…

Ma nonostante il progresso, il vero talento e la vera evoluzione sono ancora frenati dalla mancanza di equità.

Chi parte più alto arriva più alto e, ad esclusione qualche “cigno nero” che serve alla narrativa per convincerci che “tutti possiamo farcela”, la complessa verità è che “in teoria” tutti possiamo farcela… ma che “in pratica” a farcela spesso sono i figli di chi ce l’ha già fatta.

E mentre cerchiamo di tamponare l’enorme divario che si sta creando fra “chi può” e “chi non può”, dovremmo impiegare le nostre menti migliori per far diventare il capitalismo meno ereditario e più meritocratico.

Lo dobbiamo ai nostri figli… anche se sono fra quelli che rientreranno nel gruppo dei privilegiati.

P.s: Snapshot da “il talento nascosto” di Adam Grant; per approfondimenti sui dati della “meritocrazia” e del capitalismo ereditario: “la tirannia del merito” di M. Sandel.

P.p.s: il primo Maggio è una data simbolica per ricordare uno sciopero del 1866 per ridurre la giornata lavorativa ad otto ore e rendere il lavoro più “equo” e sostenibile….