La sincerità è un vestito pulito

Ray Dalio è il precursore del “dissenso ragionato” in azienda: una di quelle super intelligenze sviluppate grazie a un ascolto costante di opinioni contrastanti.

È il CEO di Bridgewater: per chi non lo conoscesse, uno dei più grandi hedge found al mondo (nonché uno dei pochissimi ad aver guadagnato nella crisi finanziaria del 2008).

È diventato miliardario perché ha praticato per primo l’ascolto e la sincerità radicale… superando la scomodità di sentirsi dare feedback non proprio piacevoli al fine di migliorare le sue decisioni.

Che diventiate miliardari o no, la sincerità e la trasparenza in azienda (nei rapporti, nella gestione e nel controllo di strutture complesse) è l’unica via per l’eccellenza… e per avere un vestito “pulito”.

Chi non risponde con la rabbia alla rabbia salva se stesso

Buddha più che saggio era uno che voleva vivere felicemente…

La felicità è un concetto sfuggente e relativo ma ha a che fare con lo stare bene con se stessi.Siamo animali sociali e non possiamo star bene con noi stessi se non stiamo bene con gli altri o non instauriamo relazioni che lasciano fuori rabbia, rancori e sentimenti negativi.

Ecco perché Buddha diceva che chi non risponde alla rabbia con la rabbia salva sia se stesso che l’altro (e rende tutti più “felici”)Per approfondimenti sul concetto di felicità legato alla nostra contemporaneità e alle “relazioni”, “La trappola della felicità” di Russ Harris

Il potenziale nascosto (#18/2024)

Viviamo in un mondo ossessionato dal talento che vediamo solo in termini di “performance”

A scuola celebriamo i migliori della classe, nello sport gli atleti nati con una marcia in più e nella musica o nelle arti i bambini prodigio.

Nelle aziende non va molto diversamente: ci facciamo ingannare dai titoli o dalle figure di potere, trascurando l’essenza vera del talento e le distanze che altre persone hanno fatto per raggiungere le proprie “vette”.

L’ammirazione per chi parte con vantaggi innati (o con “corsie preferenziali” inaccessibili ai più), ci induce a trascurare le distanze che noi stessi possiamo percorrere rispetto ai nostri punti di partenza.

Abbagliati dalle “stelle” e convinti di non essere altrettanto dotati, sottovalutiamo le moltissime abilità che possiamo acquisire lungo il percorso.

“Il potenziale nascosto” è uno straordinario libro che invita a una riflessione più profonda sul talento, sulla sua genesi e sul modo che tutti abbiamo per poter realizzare obiettivi più grandi senza innamorarsi di narrative tendenziose e poco realistiche (che contribuiscono a sottovalutare il potenziale che ognuno di noi ha e le competenze che si possono sviluppare).

L’idea di base è che la misura del nostro “successo” non debba tanto misurarsi sui risultati che raggiungiamo quanto sulla nostra capacità di affrontare gli ostacoli e di apprendere (caratteristiche che, al contrario delle doti innate, tutti possono sviluppare).

Adam Grant porta esempi pratici, studi e ricerche, case histories e testimonianze su quanto sia fondamentale cambiare la prospettiva riguardo a un tema tanto trattato quanto poco compreso nella sua essenza.

Perché la crescita e la realizzazione personale e professionale non passano solo dal genio e dai “geni” con cui nasciamo ma dal carattere che maturiamo e dagli apprendimenti di cui facciamo tesoro lungo il nostro viaggio.

L’autore spiega come costruire le capacità necessarie allo sviluppo, le strutture motivazionali con cui possiamo realizzarci e le “impalcature” necessarie per non gettare la spugna a fronte di difficoltà e impedimenti inevitabili.

Un libro “distensivo” che apre possibilità a chiunque… e che soprattutto misura le nostre reali capacità non in base alla vetta che abbiamo raggiunto ma alla distanza che abbiamo percorso per arrivarci (cosa di cui come società e organizzazioni dovremmo tenere conto per scoprire potenziali sottostimati o “nascosti” sotto tappeti che spesso non riusciamo a togliere).

Leadership vuol dire avere una fiducia incrollabile nel tuo modo di vedere le cose, rimanendo aperto ai feedback ed acquisendo la capacità di far avvenire un cambiamento positivo.



E’ visione, abilità nell’ispirare gli altri, fiducia nelle proprie possibilità e in quelle di tutte le persone intorno: sottende la capacità di prendersi dei rischi, di andare oltre e di riuscire a tenere la barra dritta facendo remare tutti ma prendendosi la responsabilità di tracciare la rotta.

E’ trasparenza, forza e vulnerabilità: capacità di proiettarsi in avanti e di fare un passo indietro quando necessario.

La leadership non è quindi una questione di titoli ma è ciò che si spoglia completamente dai titoli.

E’ riconoscere che siamo tutti esseri umani, che l’autorità formale non definisce quella morale e che chiunque può esercitarla assumendosi le responsabilità del massimo esercizio della propria professione.

In questa accezione, ognuno di noi può esercitarla attraverso 4 “poteri naturali” che non dipendono dal ruolo che si ricopre in azienda:

–         Il potere di andare al lavoro ogni giorno e di esprimersi al meglio;

–         Il potere di ispirare, influenzare ed elevare ogni persona che si incontra attraverso l’esempio, il supporto e la comprensione;

–         Il potere di farsi parte attiva di un cambiamento positivo che prescinde dalle condizioni in cui si opera;

–         Il potere di trattare gli altri con rispetto e apprezzamento, innalzando così la cultura dell’organizzazione.

“Il leader che non aveva titoli” è un best seller internazionale: narrativamente perfettibile ma con spunti interessanti su un tema tanto trattato quanto poco conosciuto nella sua essenza.

Il vero valore non è dato dalle metriche

“il vero valore non è più creato dalle misure tradizionali di produttività: è creato dalle interazioni personali, dall’innovazione e dalle soluzioni creative”

Quando misuriamo la soddisfazione umana, il valore degli azionisti o la resilienza, è evidente quanto ciò che abbiamo costruito a livello industriale nel secolo scorso, non sia ciò di cui abbiamo bisogno adesso.

L’opportunità per tutti noi risiede nel lavoro emotivo investito da dipendenti coinvolti che cercano di fare la differenza… trovando significato in quello che fanno e realizzandosi all’interno di un ecosistema sano.

tratto da “il canto del significato” di Seth Godin edito da Roi Edizioni

Tendiamo sempre a prendere le “varianti facili”…



Ma spesso, nel lavoro e nella vita, queste sono strade iper affollate in cui la concorrenza è altissima, la mediocrità dilagante e il talento inesistente.

La via più facile sembra sempre quella più comoda e indolore ma non lo è: costringe ad accettare compromessi, a stare in mezzo a una moltitudine di persone che ci allontanano dagli obiettivi e a conformarci a stili che non ci appartengono.

Ci fa combattere su un campo che non è il nostro, con persone che sono troppo diverse da noi e che più o meno involontariamente ci inducono a deviare la rotta portandoci a una lenta agonia senza fine.

A meno che la variante facile non sia deliberatamente scelta per “godersi il panorama”, per arrivare in fondo in modo efficace bisogna prendersi dei rischi e avere coraggio di buttarsi in strade poco trafficate (o definirne di nuove).

Può sembrare pericoloso ma lo è molto meno che impantanarsi in mezzo a situazioni che all’apparenza sembrano meno impegnative, ma che rallentano enormemente la propria discesa e il proprio progresso.

Se pensate di avere delle capacità o di poterle sviluppare, non scegliete mai la “variante facile”: è una strada solitamente affollata da chi quelle capacità non le ha (e ha fatto la scelta giusta).

Il logos dell’organizzazione (#17/2024)

Ci sono “filosofie” (logos) che guidano le organizzazioni…

Sono l’insieme delle credenze, dei sistemi, della cultura e dei criteri impliciti in base a cui un’organizzazione opera.

Ogni “logos” è definito non solo dai valori e dalla mission ma anche dal “modo” in cui si sta in azienda.

La prerogativa di ogni filosofia è quella di “conoscere se stessi”; per questo, quando si parla di “logos di un’organizzazione”, si ha a che fare con la sua identità: non solo coi sistemi e le procedure vigenti, ma anche con le regole non scritte che spesso la definiscono sopra ogni altra cosa.

In un mondo complesso, avere un brand, uno slogan, un buon reparto di comunicazione e un ottimo marketing non basta più; tutto è più veloce e trasparente.. e le informazioni non rimangono più all’interno di quattro mura  ma si espandono digitalmente rivelando quello che realmente un organizzazione è.

In questa ottica, andare in profondità e capire quali filosofie guidano le nostre aziende è fondamentale… così come è fondamentale capire se i nostri assunti di base sono funzionali alle sfide che ci aspettano, se abbiamo uno spazio adeguato per riflettere a fondo su quello che stiamo facendo (e sull’impatto che questo genera nella società) e se stiamo “pensando meglio” mentre siamo impegnati a generare numeri e profitto.

Rivolto a CEO, manager, consulenti, coach e imprenditori, questo libro offre un metodo pratico per analizzare i “logos” impliciti che determinano i pensieri e le azioni che si fanno in azienda, fornendo strumenti e tabelle che facilitano la comprensione e l’evoluzione della cultura organizzativa su cinque dei temi chiave per il cambiamento: scopo, responsabilità, benessere, comunicazione e tecnologia.

Un manuale estremamente pratico che ho avuto la fortuna di conoscere grazie ad Andrea Cardillo (co autore insieme a Paolo Cervari e managing partner di TPC Leadership Italia: società con cui collaboro come associato e che da anni si occupa attivamente del cambiamento culturale nelle organizzazioni e dello sviluppo di una nuova leadership)

Speak up! parlate!


Le aziende più strutturate cercano di stimolare le persone a parlare ma i loro sistemi gerarchici non aiutano e nella pratica pochi riescono a intraprendere azioni efficaci per creare una cultura in cui i dipendenti siano veramente liberi di esprimersi.

Un esempio di come fare ad aumentare i feedback e creare un clima di sicurezza psicologica e di sincerità radicale è quello di invertire la parabola del feedback.

Come si fa?

Anziché avere sessioni di feedback unidirezionali (dal capo ai collaboratori), è sufficiente impostare un sistema per cui anche i dipendenti danno feedback massivi ai propri responsabili.

Feedback a 360 gradi, visibili e tali da essere trasparenti come in una sorta di “TripAdvisor” per manager.

Questa soluzione (apparentemente inapplicabile), spingerebbe naturalmente al miglioramento e consentirebbe anche ai livelli più alti di capire come correggere il tiro (più si sale nell’organigramma, meno feedback sinceri si ricevono).

Fantascienza?

Forse.

Ma ci sono realtà che lo hanno implementato efficacemente (lo spunto viene da Reed Hastings di Netflix ma un sistema simile veniva applicato anche dalla bridgewater di Ray Dalio).

E anche se a qualcuno potrà sembrare spaventoso, basta pensare che meno feedback si ricevono e meno si ha la possibilità di creare una cultura orientata all’innovazione.

D’altronde se la temperatura dell’olio sale e non ci sono “sonde” o feedback a segnalarlo, il motore fonde e la macchina si ferma: un concetto tanto semplice quanto faticoso da applicare quando dalle sonde si passa alle persone.

Per approfondimenti: l’unica regola è che non ci sono regole (Reed Hastings), sincerità radicale (Kim Scott) e “I principi del successo” (Ray Dalio)

“Ecco cosa significa fare diverso da tutti gli altri”.



“tutti facevano il cioccolato solido e io l’ho fatto cremoso ed è nata la Nutella;

tutti facevano le scatole di cioccolatini e noi cominciamo a venderli uno per uno ma incartati da festa;

tutti pensavano che noi italiani non potessimo pensare di andare in Germania a vendere cioccolata e oggi quello è il nostro primo mercato;

tutti facevano l’uovo per Pasqua e io ho pensato che si potesse fare l’ovetto piccolo ma tutti i giorni;

tutti volevano il cioccolato scuro e io ho detto che c’era più latte meno cacao;

tutti pensavano che il tè potesse essere solo quello con la bustina e caldo e io l’ho fatto freddo e senza bustina”

Michele Ferrero

La differenza maggiore fra le diverse generazioni è il tempo che impiegano a mettere in discussione un “sistema” (o un metodo di lavoro)


Le generazioni pre-millennial sono state educate a non mettere in discussione quello che veniva detto o fatto: i sistemi erano considerati “intrinsecamente validi” sia perchè funzionavano abbastanza bene, sia perchè davano delle sicurezze.

Adesso che il mercato del lavoro è cambiato e che nessuno è più in grado di dare delle certezze per un periodo che non sia relativamente breve, mettere in discussione quello che facciamo è diventata una cosa più normale (e il tempo che intercorre fra quando entriamo in un’azienda e quando iniziamo a vederne i limiti si è fatto sempre più “corto”).

Questo da un lato ha portato a un dinamismo senza precedenti, costringendo le organizzazioni a rincorrere le necessità di lavoratori sempre più esigenti in termini di benessere e retribuzione; dall’altro sta però dando origine a periodi di instabilità con malcontenti diffusi che generano spaesamento e favoriscono una “cultura degli alibi”.

Ciò che rende ancora più complesso questo fenomeno, è la contemporanea coesistenza negli ambienti di lavoro di una pluralità di generazioni con esigenze e prospettive diverse… che se da una parte costituiscono
il lato positivo della “diversity”, dall’altro rendono più complicato un
ecostistema che fa ancora fatica a trovare un equilibrio giusto…

Sono le grandi sfide che tutti dovremo affrontare per cercare proattivamente delle alternative anzichè passare dritti alla conclusione della seconda immagine di questa “vignetta” (credit: Corporate Rebels)