Perché i CEO dovrebbero essere come il mio amico Giacomo (che fa l’elettricista)

Il mese scorso Giacomo ha rotto il suo trattorino tagliaerba..

L’ho scoperto per caso ed appena l’ho saputo gli ho prestato il mio senza pensarci su.

Usandolo, ha rotto la cinghia ed entrambi siamo rimasti senza un ausilio meccanico piuttosto utile…

Abbiamo risolto il problema velocemente: io ho fatto arrivare una cinghia fuori produzione in due giorni, lui ha procurato gli attrezzi ed insieme l’abbiamo montata, rimettendo in sesto il trattorino, tagliando l’erba, e condividendo un momento insieme.

Non presto volentieri attrezzi agli altri non perché siano costosi o abbia paura di rotture/danneggiamenti ma per un motivo molto semplice: difficilmente trovo qualcuno disposto a fare lo stesso con me (il che non rende di me necessariamente un egoista, ma neanche un esempio virtuoso).

La logica dell’individualismo imperversa sia dentro che fuori dalle aziende: tutti ne siamo influenzati e prima di arrivare nei consigli di amministrazione, parte dalle competizioni sportive, dalle scuole e dalle famiglie (prima mangi tu poi, se proprio ti avanza qualcosa, lo dai a quello che poi chiami un tuo “amico”).

Giacomo è diverso: non si cura degli schemi e delle convenzioni, è allergico al “do ut des” e pratica la condivisione ed il libero scambio.

Se lo chiami per un qualsiasi problema, accorre in tuo aiuto senza aspettativa alcuna (l’anno prima aveva speso due fine settimana a montare una casetta in legno nel mio giardino.. al prezzo di una bevuta).

Se Giacomo fosse il mio CEO, non solo gli presterei il trattorino (senza pretendere salti di carriera), ma sarei disposto a lavorare per lui indipendentemente dalla fatica, dallo stipendio o da altri tipi di gratificazione.

Grazie a Giacomo sono riuscito a fare cose che non sarei riuscito a fare da solo e che sicuramente non ho visto fare a vicini dotati di attrezzature migliori ma senza nessuno disposto ad aiutarli.

Giacomo non ha tutte le competenze per fare il CEO… ma se tutti i CEO fossero come Giacomo… allora andremmo avanti con un altro passo: le aziende avrebbero un “mindset” differente, produrrebbero molto di più e lavorarci sarebbe molto più divertente e “significativo”.

Non è solo una questione di “amicizia” incondizionata o di spirito comunitario… è soprattutto una questione di “logica” operativa: comportamenti più virtuosi portano ambienti più efficaci (con buona pace dei “vicini” che stanno a guardare).

Il perché della “contaminazione” in azienda..

Sempre più aziende iniziano a cercare candidati con un alto tasso di “contaminazione”..

Professionalità che hanno lavorato in molteplici contesti ed a contatto con un’ampia gamma di culture: persone con estrazioni ed esperienze diverse, capaci di creare connessioni fra discipline e saperi differenti e di sfruttare il pensiero laterale per risolvere problemi complessi.

Perché?

Un contaminato riconosce la diversità e ne sfrutta i punti di forza: riesce ad accedere a diversi “mindset” a seconda della sfida che gli si presenta davanti.

E’ più elastico e poliedrico: maggiormente in grado di sfruttare le potenzialità di una “cassetta degli attrezzi” diversificata e di trovare soluzioni laddove un ragionamento più schematico può porre grossi limiti.

La contaminazione è inoltre fondamentale per avere a che fare con uno sviluppo tecnologico che pone sfide sempre nuove e che richiede competenze in grado di aggiornarsi continuamente (difficilmente a disposizione di una singola persona).

Dibattiti sempre più spinosi e difficili (come quello fra scienza ed etica riproposto con l’avvento dell’intelligenza artificiale), richiedono approcci a tutto tondo che possono essere affrontati solo grazie a contributi multidisciplinari e multiculturali.

Più universale, globale e complesso è il problema, più si ha bisogno di un approccio universale, globale e complesso (riscontrabile con maggiore probabilità in chi si è “contaminato”).

Come un anfibio sopravvive meglio in un ambiente a cavallo fra l’emerso ed il sommerso, così un contaminato può affrontare meglio sfide ibride come quelle che si delineano negli scenari macro-economici attuali.

Peraltro l’approccio “multipotenziale” o da “contaminato”, è sempre stato centrale nelle figure cardine che hanno determinato passi in avanti significativi nell’evoluzione (erano “contaminati” L. Da Vinci, A. Turing, N. Coperinco, N. Tesla, M. Curie, T. Edison. S. Jobs e molti dei più grandi “innovatori” della storia).

Abbiamo cominciato in passato a “contaminare” discipline differenti (facendo crescere le persone orizzontalmente alle organizzazioni e spostando venditori al project management o viceversa)… adesso stiamo capendo l’importanza di diversità, inclusione ed ambienti multiculturali… nel prossimo futuro si porrà il tema della “contaminazione” fra uomo e macchina (per sfruttare le potenzialità dell’uno e delle altre)…

La contaminazione si pone come una delle strade maestre per il miglioramento della nostra specie e dei risultati che si possono ottenere in ambito professionale e non…

C’è da scommettere che le aziende che faranno leva su questo aspetto avranno un vantaggio competitivo enorme sulle altre (ed i candidati “contaminati”, un vantaggio competitivo su tutti gli altri).

Per approfondimenti: contminati di Giulio Xhaet, la mappa delle culture di Erin Meyer, Mindset di carol Dweck, Diventa chi sei di Emilie Wapnick

Perché investire in competenze diversificate..

“Non mettere le uova in un solo paniere” è una celebre frase di Warren Buffet applicata agli investimenti finanziari che vale anche per gli investimenti in competenze e professionalità..

Mettere le uova in un solo paniere vuol dire rischiare di perdere tutto nel caso in cui il paniere cada o si rompa per un qualsiasi motivo non dipendente dal nostro controllo.

Se investiamo anni della nostra carriera sviluppando una sola competenza, diventeremo personale “altamente specializzato”.. ma con il rischio altissimo di rimanere a terra nel caso di improvvisi cali di mercato o di obsolescenza della nostra “super-competenza”.

D’altronde è ormai un dato di fatto che la “durata media delle proprie competenze” segue lo stesso andamento della vita media delle aziende (in crollo vertiginoso da 50 anni a questa parte): mestieri che esistevano da decenni sono scomparsi improvvisamente, a scapito di altri che non esistevano fino a 10 anni fa (come ad esempio i richiestissimi “UX designer o gli esperti in intelligenza artificiale”)

Rimanere nella zona di comfort di una competenza sviluppata in decenni può pertanto costare caro quanto mettere “tutte le uova in un solo paniere”.

La pluralità delle competenze diventerà uno standard  e la mancanza di supercompetenze sarà comunque mitigata dal progresso e dalle macchine (può non essere auspicabile ma è una conseguenza naturale delle accelerazioni imposte dall’evoluzione odierna).

Accrescere le proprie competenze in campi diversi sarà come posizionare le proprie uova in contenitori differenti… ed avere maggiore probabilità di poter sopravvivere nel caso qualcosa vada storto..

Ciò che vale per gli investimenti finanziari (in cui nessuno si sognerebbe di puntare tutto su un’unica azienda), vale anche per gli investimenti in competenze e professionalità.

Meglio muoversi per tempo..

#learning #competenze #lifelonglearning #investimenti

Imparare l’ottimismo (#40/2021)

di Martin Seligman pag. 374 24 Agosto 2021

Come cambiare la propria vita professionale (e non), cambiando il pensiero..

Plurime statistiche identificano come le persone ottimiste abbiano generalmente maggior successo dei pessimisti (che tuttavia si dimostrano più “realisti” nei confronti della realtà che li circonda).

Per una vita soddisfacente e “di successo” (qualsiasi sia l’accezione che si attribuisce al concetto di “successo”), è necessario avere un “ottimismo flessibile”, che attinga dalle enorme risorse sprigionate dagli ottimisti ma che tenga conto del realismo dei pessimisti.

Per essere “ottimisti flessibili”, Seligman suggerisce in questo testo un percorso in quattro passi:

  • riconoscere il proprio stile esplicativo (ossia quel che diciamo a noi stessi di fronte alle avversità);
  • neutralizzare l’abitudine al pessimismo ed alla scarsità di resilienza attraverso tecniche e metodi pratici (descritti nel libro);
  • adottare modalità di pensiero più efficaci per il benessere fisico e psicologico;
  • aiutare gli altri (partendo dai figli, con l’educazione) a riconoscere le proprie caratteristiche e ad adottare modalità più efficaci in rapporto ai risultati attesi.

Molti innovatori dei nostri tempi e molti leader carismatici sono stati “ottimisti flessibili”… persone che hanno avuto una “visione” di qualcosa che non esisteva e che hanno perseverato nelle proprie azioni grazie all’ottimismo flessibile, che ha consentito loro di superare gli ostacoli con realismo ma con quel giusto grado di positività necessaria a sostenere la necessaria “resilienza”.

L’ottimismo non è una formula magica: è tendenzialmente una caratteristica comportamentale ma anche una modalità di funzionamento del pensiero che può essere appresa con la pratica…

E questo è un buon testo per iniziare con un po’ di esercizio..

Essere me, amare te (#39/2021)

di Marshall B. Rosemberg pag. 115 22 Agosto 2021

Una guida pratica per costruire solide relazioni partendo dalla comunicazione non violenta.

Si parla spesso di empatia, comunicazione non violenta, ascolto attivo e feedback… ma come metterli in pratica?

Rosemberg, padre della comunicazione non violenta, prova a descrivere dei metodi efficaci per imparare ad esprimersi in modo onesto e sincero, con lo scopo di rivelare trasparentemente le proprie intenzioni e di far arrivare il messaggio ai nostri interlocutori nel modo più efficace possibile.

Suggerisce quattro domande da cui partire per analizzare il proprio processo comunicativo in qualsivoglia sfera della propria vita, cercando di partire dall’osservazione dei bisogni e delle richieste implicite o esplicite di chi ci sta di fronte ,per portare la discussione su un piano efficace che tenga conto degli interessi e non delle “posizioni” (cosa il cui contrario porta spesso a situazioni di conflitto).

Un libro interessante per approfondire le dinamiche di azione e reazione che spesso scaturiscono nelle relazioni professionali e non e per capire come detonare la tendenza al giudizio che spesso caratterizza una comunicazione inefficace.

XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX

Per manager ed organizzazioni:

Le organizzazioni sono fatte di persone che producono un risultato… ed il risultato è funzione di come le persone interagiscono fra loro e di come comunicano.

La comunicazione assertiva (o “non violenta”), ha risultati notevoli perché affonda le sue radici nelle caratteristiche sociologiche dell’uomo (a quale persona intellettualmente evoluta piace una comunicazione “violenta”?!?).

Via via che ci allontaniamo da organizzazioni viste come centri di potere con ruoli altamente formalizzati e gerarchici, la capacità di “ascoltare attivamente” e di “parlare non violentemente” assume un’importanza crescente.

Quella che prima era un aspetto irrilevante all’interno delle aziende (talvolta addirittura interpretato come segno di debolezza), diventerà sempre più una caratteristica chiave per avere successo e per ridefinire nuovi modelli organizzativi basati su empowerment e condivisione.

Gli effetti della comunicazione non violenta sono peraltro stati appannaggio di molti dei più grandi leader della storia: personaggi di spicco che oggi sarebbero perfetti come CEO delle organizzazioni 4.0 (personalmente trovo che la biografia di Mandela scritta da Richard Stengel sia uno dei manuali di leadership più brillanti mai scritti).

“Essere me, amare te” è un saggio lontano dal vecchio mondo organizzativo ma molto vicino a come le organizzazioni si stanno “reinventando” per adeguarsi ad un nuovo stadio di consapevolezza umana.

Nel cambio di paradigma in corso, imparare a comunicare efficacemente è uno dei fattori più importanti… sia per le nuove start up, che per le aziende tradizionali che ambiscono allo stesso livello di eccellenza delle multinazionali della Silicon Valley.

Motivo per cui un manualetto di nicchia come questo può essere un buon punto di partenza..

Immagini VS parole (#38/2021)

Di Davide Bertozzi  pag. 170   21 Agosto 2021

Un manuale di scrittura pubblicitaria che serve come spunto per qualsiasi tipo di comunicazione.

Immagini VS parole, parla di messaggi pubblicitari, di bilanciamento fra “immagini” e “testi” ma soprattutto di “creatività”… che non è come una lampadina che si spenge o si accende ma che è un percorso da coltivare quotidianamente.

Un libro pensato per chi si occupa di comunicazione e marketing ma che può essere fonte di ispirazione per il personal e l’employer branding: due “discipline” relativamente nuove, fondamentali non solo per trovare clienti ma anche per essere assunti o scalare verticalmente o orizzontalmente un’organizzazione.

In definitiva veniamo promossi, pagati, ingaggiati o scelti non tanto per il lavoro che sappiamo fare ma per quello che le aziende “immaginano” che sappiamo fare.. saper bilanciare immagini e parole per creare il nostro messaggio pubblicitario è una competenza sempre più utile in un mondo con tanta domanda e poca offerta..

“Quale è la prossima azione?”

Una domanda che tutti dovremmo farci prima di entrare in una sala riunioni..

.. una domanda semplice che farebbe fare passi avanti enormi se solo ogni partecipante se ne facesse carico..

Un po’ come un post o un articolo non sono significativi se non rispondono alla domanda “e allora?!?”, analogamente una riunione non è significativa se non dà una risposta alla stessa domanda..

Quanti partecipanti entrano in un meeting con lo scopo di uscire dalla stanza definendo la prossima azione che devono fare?

Quanti organizzatori convocano riunioni con l’intento esplicito che chiunque esca definisca la prossima azione come requisito minimo?

Quante azioni quindi scaturiscono da meeting sempre troppo incentrati sui risultati teorici e poco sul come e cosa fare per ottenerli?

Definire “la prossima azione”, che dovrebbe essere il motivo principale per organizzare una riunione, è spesso considerato un “optional”..

Il risultato è che le riunioni sono spesso lunghe, macchinose, noiose e piene di partecipanti che si incontrano più per scopi sociali che per ragioni operative.

… e scarsamente efficaci dal momento che solo pochissime persone riescono a sentirsi ingaggiate e motivate senza avere niente da fare se non ascoltare passivamente quello che viene detto (da altrettante persone il cui scopo è quello di parlare e non di “definire” il passo successivo).

Una soluzione?

Chi organizza può progettare la riunione invitando le persone solo a condizione che per loro si possa definire un’azione da fare (avendo cura di salvaguardare il loro tempo se non sono strettamente necessarie o utili)

Chi viene invitato ad una riunione deve accettare solo se è sicuro di poter contribuire o prendere in carico un’azione finalizzata al risultato a cui si punta.

Così facendo le riunioni sarebbero:

  • sarebbero più efficaci (meno partecipanti ma maggiormente coinvolti)
  • più economiche
  • meno entropiche
  • meno frustranti

Ci sarebbero meno partecipanti maggiormente coinvolti e meno “spettatori” frustrati da quella sensazione vivida di aver sprecato il proprio tempo senza aver creato valore aggiunto.

Le caratteristiche di una grande squadra.

Una grande squadra ha poche caratteristiche:

  • Non è perfetta ma minimizza le imperfezioni ed esalta le caratteristiche positive dei singoli
  • E’ un tuttuno in cui il singolo ha il proprio ruolo ed il proprio spazio all’interno di un “cerchio di sicurezza” in cui è libero di sbagliare, sperimentare e perfezionarsi
  • Conta sempre molto di più di qualsiasi individualismo
  • Ha un allenatore che è disposto a fare per i propri giocatori molto di più di quello che lui stesso si aspetta da loro.

Se il tuo team di lavoro ha queste caratteristiche… allora hai una grande squadra (e tu, probabilmente, sei un grande leader)

Se invece non hai una grande squadra… allora hai 4 elementi su cui lavorare

Come fare a raggiungere “l’eccellenza”

I

Come raggiungere l’eccellenza?!?

Il concetto di eccellenza si raggiunge solo dopo aver stabilito e chiarito quale è il proprio concetto di successo.

Spesso l’errore comune è cercare un lavoro ben remunerato (sotto pressioni esterne ed inseguendo quelli che sono considerati fattori di successo dalla società), e poi pretendere di farlo in maniera “eccellente”.

Ma per mangiare con gusto bisogna prima scegliersi il piatto… e pretendere di essere il mangiatore più veloce del mondo ingurgitando una pietanza scelta da altri è un’impresa al limite dell’impossibile.

XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX

L’eccellenza parte prima di tutto da una scelta personale e difficilmente si raggiunge inseguendo modelli di successo imposti dall’esterno.

Il successo è un concetto anch’esso molto personale e varia da persona a persona in base ai valori dell’individuo.

Il problema di raggiungere l’eccellenza nell’ambiente di lavoro è spesso legato a ciò che intimamente riteniamo fattori di successo.

Se veramente ritengo che diventare un membro del consiglio di amministrazione rispecchi esattamente il mio concetto personale di successo (ovvero il mio “pallino” fin dalla nascita), allora è probabile che riesca ad eccellere mentre faccio tutto quello che mi porterà un giorno ad essere parte del “board”.

Il vero motivo per cui pochi raggiungono l’eccellenza professionale è che spesso quelli che crediamo fattori di successo sono quelli suggeriti dalla società (un posto riservato nel parcheggio aziendale o la macchina del caffè personale in ufficio) e poco quelli che sono invece frutto di quello che vogliamo intimamente o dei nostri punti di forza (che sono invece su cui puntare per raggiungere “l’eccellenza”).

Pensare di raggiungere l’eccellenza, in ambiti di successo progettati da altri, è come pretendere di diventare il più grande scalatore del mondo quando intimamente siamo grandi nuotatori.

Viceversa pensare che i propri dipendenti raggiungano l’eccellenza proponendo un modello univoco di “successo”, porta all’errore di pretendere che a tutti piaccia la disciplina del salto con l’asta… rendendo le olimpiadi estremamente monotone e piene di atleti mediocri..

Quella che può sembrare una banalità è in realtà un fattore determinante non solo per il raggiungimento dell’eccellenza ma anche per evitare una frustrazione perenne (e costi incalcolabili di improduttività per intere aziende e società).

La maggior parte delle persone è incapace di raggiungere l’eccellenza non perché non mancanti di capacità ma perché semplicemente impiegate in professioni che non fanno leva sulle loro caratteristiche e propensioni.

L’eccellenza si raggiunge solo a condizione di rimanere fedeli a se stessi, a quello che si crede ed al proprio modo di intendere la vita e la professione: tutto il resto sono proiezioni esterne che per quanto forti non riusciranno a far spuntare le pinne ad una volatile (o le ali ad un pesce).

Se un neolaureato mi chiedesse come fare a raggiungere l’eccellenza non gli suggerirei di cercarsi un lavoro ben pagato per poi sforzarsi di eccellere, ma gli consiglierei di cercare qualcosa che  rispecchia le sue attitudini e desideri…e poi aspettare che i soldi arrivino da sé una volta raggiunta l’eccellenza (un processo naturale che non può essere “forzato”).

Se un’azienda mi chiedesse come fare a raggiungere l’eccellenza, gli suggerirei di abbandonare criteri univoci di successo e di stimolare le persone a capire ed esplicitare quali sono i parametri che considerano importanti (per poi accoglierli e metterli in chiave con il risultato operativo).

L’eccellenza è prima di tutto una questione di allineamento di intenti, sforzi e propensioni personali: agire in modo differente (rincorrendo un lavoro solo perché gli altri ti dicono che “è un buon lavoro”), serve solo a raggiungere risultati “sufficienti” con sforzi notevoli ed in archi di tempo estremamente lunghi.

La società, le famiglie e le aziende dovrebbero invertire i paradigmi ed invece di legare i propri risultati ad una gamma limitata di modelli unici di successo (pretendendo che 7 miliardi di persone diverse puntino tutti nella stessa direzione), dovrebbero spingere le persone riflettere e lavorare sui propri modelli di successo… per farli eccellere in discipline diverse che concorrano all’ottenimento di risultati veramente eccellenti (anziché uniformare tutti e cercare di “vendere” come di successo, modelli che per molti sono assolutamente estranei).

ito lavorativo cosa può definirsi “eccellenza”?!?

Il concetto di eccellenza si raggiunge solo dopo aver stabilito quale è il proprio concetto di successo.

Il successo è un concetto molto personale e varia da persona a persona in base ai propri valori: c’è chi lo identifica nel fare cose che rendono il mondo migliore e chi in cose che migliorano o fanno sentire bene esclusivamente se stessi.

Il problema di raggiungere l’eccellenza nell’ambiente di lavoro è quindi legato a ciò che intimamente riteniamo fattori di successo.

Il vero motivo per cui pochi raggiungono l’eccellenza professionale è che spesso quelli che crediamo fattori di successo sono quelli suggeriti dalla società (un posto riservato nel parcheggio aziendale o la macchina del caffè personale in ufficio) e poco quelli che sono invece frutto di quello che vogliamo intimamente o dei nostri punti di forza (che sono invece su cui puntare per raggiungere “l’eccellenza”).

Pensare di raggiungere l’eccellenza (frutto delle nostre caratteristiche peculiari), in ambiti di successo progettati da altri è come pretendere di diventare il più grande scalatore del mondo quando intimamente siamo grandi nuotatori.

Quella che può sembrare una banalità è in realtà un fattore determinante non solo per il raggiungimento dell’eccellenza ma anche per evitare una frustrazione decisamente troppo diffusa nelle aziende..

Siamo incapaci di raggiungere l’eccellenza non perché non siamo capaci in assoluto ma perché semplicemente inseguiamo parametri che non ci appartengono intimamente.

L’eccellenza la raggiunge chi ha veramente chiari quali sono i propri fattori “di successo”… ed ha la forza e la determinazione di intraprendere azioni costantemente coerenti agli stessi.

Se pensiamo di considerare i fattori di successo degli altri come fattori di successo a cui aspirare, difficilmente riusciremo ad ottenere “l’eccellenza”.

L’eccellenza si raggiunge solo a condizione di rimanere fedeli a se stessi, a quello che si crede ed al proprio modo di intendere la vita e la professione: tutto il resto sono proiezioni esterne che per quanto forti non riusciranno a far spuntare le pinne ad una volatile (o le ali ad un pesce)… o a far eccellere

P.s: i pochi dirigenti che ho visto “eccellere” sono persone che hanno intrapreso con tenacia e costanza una serie di azioni in totale conformità con il proprio sistema di valori (fosse quello di raggiungere un posto in CdA o quello di diventare un leader carismatico a servizio di tutti).

Metti al sicuro il tuo futuro (#37/2021)

Di Jay Samit pag. 284 10 Agosto 2021 (ovvero spostare il focus su qualcosa di più produttivo del giudizio esterno);

Come coltivare una mentalità orientata alla crescita..

Con l’avvento della “società liquida”, delle carriere allungate e della necessità di sviluppare dinamicamente competenze sempre nuove, questo libro contiene utili rivisitazioni di parabole “classiche” ma anche validi suggerimenti pratici per tenere viva la fiamma dell’apprendimento costante (unica via per il miglioramento continuo in qualsiasi settore).

Fra le pratiche suggerite:

1)     Cominciare ad imparare, smettendo di vedere quello che si fa in termini di successo o fallimento ma vivendolo come occasione per migliorare (ovvero provare a cambiare mentalità, allontanandosi dagli schemi imposti);

2)     Non cercare nè l’approvazione nè le critiche ma feedback funzionali all’apprendimento (spostare il focus sul proprio miglioramento e non sulle differenze rispetto a qualcosa/qualcuno);

3)     Annotare i propri progressi… tenendo un diario quotidiano e facendo attenzione al linguaggio utilizzato per descrivere obiettivi ed azioni (serve per migliorare la qualità degli obiettivi e del pensiero con inevitabili ripercussioni su come vediamo il mondo e sulle nostre relazioni);

4)     Concentrare l’attenzione sulla propria identità invece che sull’immagine che vogliamo dare agli altri (spostare il focus su qualcosa di più produttivo del giudizio esterno);

5)     Imparare dagli errori degli altri e non solo dai propri (aumentando il numero di “lezioni apprese”);

6)     Praticare la gratitudine come antidoto al pensiero negativo (distogliere l’attenzione sulla mancanza di un jet privato e concentrandola sulla possibilità di avere acqua calda incide non poco su umore, “reattività” e produttività).

Con un taglio molto pragmatico, tutti i consigli sopra descritti (mutuati per lo più da Seligman e dal filone della psicologia positiva), sono stati attualizzati al mondo del lavoro odierno, intrecciandoli con una realtà fatta di smartworking e paradigmi rivisitati nell’ottica di un capitalismo più sostenibile.