Perché investire in competenze diversificate..

“Non mettere le uova in un solo paniere” è una celebre frase di Warren Buffet applicata agli investimenti finanziari che vale anche per gli investimenti in competenze e professionalità..

Mettere le uova in un solo paniere vuol dire rischiare di perdere tutto nel caso in cui il paniere cada o si rompa per un qualsiasi motivo non dipendente dal nostro controllo.

Se investiamo anni della nostra carriera sviluppando una sola competenza, diventeremo personale “altamente specializzato”.. ma con il rischio altissimo di rimanere a terra nel caso di improvvisi cali di mercato o di obsolescenza della nostra “super-competenza”.

D’altronde è ormai un dato di fatto che la “durata media delle proprie competenze” segue lo stesso andamento della vita media delle aziende (in crollo vertiginoso da 50 anni a questa parte): mestieri che esistevano da decenni sono scomparsi improvvisamente, a scapito di altri che non esistevano fino a 10 anni fa (come ad esempio i richiestissimi “UX designer o gli esperti in intelligenza artificiale”)

Rimanere nella zona di comfort di una competenza sviluppata in decenni può pertanto costare caro quanto mettere “tutte le uova in un solo paniere”.

La pluralità delle competenze diventerà uno standard  e la mancanza di supercompetenze sarà comunque mitigata dal progresso e dalle macchine (può non essere auspicabile ma è una conseguenza naturale delle accelerazioni imposte dall’evoluzione odierna).

Accrescere le proprie competenze in campi diversi sarà come posizionare le proprie uova in contenitori differenti… ed avere maggiore probabilità di poter sopravvivere nel caso qualcosa vada storto..

Ciò che vale per gli investimenti finanziari (in cui nessuno si sognerebbe di puntare tutto su un’unica azienda), vale anche per gli investimenti in competenze e professionalità.

Meglio muoversi per tempo..

#learning #competenze #lifelonglearning #investimenti

Imparare l’ottimismo (#40/2021)

di Martin Seligman pag. 374 24 Agosto 2021

Come cambiare la propria vita professionale (e non), cambiando il pensiero..

Plurime statistiche identificano come le persone ottimiste abbiano generalmente maggior successo dei pessimisti (che tuttavia si dimostrano più “realisti” nei confronti della realtà che li circonda).

Per una vita soddisfacente e “di successo” (qualsiasi sia l’accezione che si attribuisce al concetto di “successo”), è necessario avere un “ottimismo flessibile”, che attinga dalle enorme risorse sprigionate dagli ottimisti ma che tenga conto del realismo dei pessimisti.

Per essere “ottimisti flessibili”, Seligman suggerisce in questo testo un percorso in quattro passi:

  • riconoscere il proprio stile esplicativo (ossia quel che diciamo a noi stessi di fronte alle avversità);
  • neutralizzare l’abitudine al pessimismo ed alla scarsità di resilienza attraverso tecniche e metodi pratici (descritti nel libro);
  • adottare modalità di pensiero più efficaci per il benessere fisico e psicologico;
  • aiutare gli altri (partendo dai figli, con l’educazione) a riconoscere le proprie caratteristiche e ad adottare modalità più efficaci in rapporto ai risultati attesi.

Molti innovatori dei nostri tempi e molti leader carismatici sono stati “ottimisti flessibili”… persone che hanno avuto una “visione” di qualcosa che non esisteva e che hanno perseverato nelle proprie azioni grazie all’ottimismo flessibile, che ha consentito loro di superare gli ostacoli con realismo ma con quel giusto grado di positività necessaria a sostenere la necessaria “resilienza”.

L’ottimismo non è una formula magica: è tendenzialmente una caratteristica comportamentale ma anche una modalità di funzionamento del pensiero che può essere appresa con la pratica…

E questo è un buon testo per iniziare con un po’ di esercizio..

Essere me, amare te (#39/2021)

di Marshall B. Rosemberg pag. 115 22 Agosto 2021

Una guida pratica per costruire solide relazioni partendo dalla comunicazione non violenta.

Si parla spesso di empatia, comunicazione non violenta, ascolto attivo e feedback… ma come metterli in pratica?

Rosemberg, padre della comunicazione non violenta, prova a descrivere dei metodi efficaci per imparare ad esprimersi in modo onesto e sincero, con lo scopo di rivelare trasparentemente le proprie intenzioni e di far arrivare il messaggio ai nostri interlocutori nel modo più efficace possibile.

Suggerisce quattro domande da cui partire per analizzare il proprio processo comunicativo in qualsivoglia sfera della propria vita, cercando di partire dall’osservazione dei bisogni e delle richieste implicite o esplicite di chi ci sta di fronte ,per portare la discussione su un piano efficace che tenga conto degli interessi e non delle “posizioni” (cosa il cui contrario porta spesso a situazioni di conflitto).

Un libro interessante per approfondire le dinamiche di azione e reazione che spesso scaturiscono nelle relazioni professionali e non e per capire come detonare la tendenza al giudizio che spesso caratterizza una comunicazione inefficace.

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Per manager ed organizzazioni:

Le organizzazioni sono fatte di persone che producono un risultato… ed il risultato è funzione di come le persone interagiscono fra loro e di come comunicano.

La comunicazione assertiva (o “non violenta”), ha risultati notevoli perché affonda le sue radici nelle caratteristiche sociologiche dell’uomo (a quale persona intellettualmente evoluta piace una comunicazione “violenta”?!?).

Via via che ci allontaniamo da organizzazioni viste come centri di potere con ruoli altamente formalizzati e gerarchici, la capacità di “ascoltare attivamente” e di “parlare non violentemente” assume un’importanza crescente.

Quella che prima era un aspetto irrilevante all’interno delle aziende (talvolta addirittura interpretato come segno di debolezza), diventerà sempre più una caratteristica chiave per avere successo e per ridefinire nuovi modelli organizzativi basati su empowerment e condivisione.

Gli effetti della comunicazione non violenta sono peraltro stati appannaggio di molti dei più grandi leader della storia: personaggi di spicco che oggi sarebbero perfetti come CEO delle organizzazioni 4.0 (personalmente trovo che la biografia di Mandela scritta da Richard Stengel sia uno dei manuali di leadership più brillanti mai scritti).

“Essere me, amare te” è un saggio lontano dal vecchio mondo organizzativo ma molto vicino a come le organizzazioni si stanno “reinventando” per adeguarsi ad un nuovo stadio di consapevolezza umana.

Nel cambio di paradigma in corso, imparare a comunicare efficacemente è uno dei fattori più importanti… sia per le nuove start up, che per le aziende tradizionali che ambiscono allo stesso livello di eccellenza delle multinazionali della Silicon Valley.

Motivo per cui un manualetto di nicchia come questo può essere un buon punto di partenza..

Immagini VS parole (#38/2021)

Di Davide Bertozzi  pag. 170   21 Agosto 2021

Un manuale di scrittura pubblicitaria che serve come spunto per qualsiasi tipo di comunicazione.

Immagini VS parole, parla di messaggi pubblicitari, di bilanciamento fra “immagini” e “testi” ma soprattutto di “creatività”… che non è come una lampadina che si spenge o si accende ma che è un percorso da coltivare quotidianamente.

Un libro pensato per chi si occupa di comunicazione e marketing ma che può essere fonte di ispirazione per il personal e l’employer branding: due “discipline” relativamente nuove, fondamentali non solo per trovare clienti ma anche per essere assunti o scalare verticalmente o orizzontalmente un’organizzazione.

In definitiva veniamo promossi, pagati, ingaggiati o scelti non tanto per il lavoro che sappiamo fare ma per quello che le aziende “immaginano” che sappiamo fare.. saper bilanciare immagini e parole per creare il nostro messaggio pubblicitario è una competenza sempre più utile in un mondo con tanta domanda e poca offerta..

“Quale è la prossima azione?”

Una domanda che tutti dovremmo farci prima di entrare in una sala riunioni..

.. una domanda semplice che farebbe fare passi avanti enormi se solo ogni partecipante se ne facesse carico..

Un po’ come un post o un articolo non sono significativi se non rispondono alla domanda “e allora?!?”, analogamente una riunione non è significativa se non dà una risposta alla stessa domanda..

Quanti partecipanti entrano in un meeting con lo scopo di uscire dalla stanza definendo la prossima azione che devono fare?

Quanti organizzatori convocano riunioni con l’intento esplicito che chiunque esca definisca la prossima azione come requisito minimo?

Quante azioni quindi scaturiscono da meeting sempre troppo incentrati sui risultati teorici e poco sul come e cosa fare per ottenerli?

Definire “la prossima azione”, che dovrebbe essere il motivo principale per organizzare una riunione, è spesso considerato un “optional”..

Il risultato è che le riunioni sono spesso lunghe, macchinose, noiose e piene di partecipanti che si incontrano più per scopi sociali che per ragioni operative.

… e scarsamente efficaci dal momento che solo pochissime persone riescono a sentirsi ingaggiate e motivate senza avere niente da fare se non ascoltare passivamente quello che viene detto (da altrettante persone il cui scopo è quello di parlare e non di “definire” il passo successivo).

Una soluzione?

Chi organizza può progettare la riunione invitando le persone solo a condizione che per loro si possa definire un’azione da fare (avendo cura di salvaguardare il loro tempo se non sono strettamente necessarie o utili)

Chi viene invitato ad una riunione deve accettare solo se è sicuro di poter contribuire o prendere in carico un’azione finalizzata al risultato a cui si punta.

Così facendo le riunioni sarebbero:

  • sarebbero più efficaci (meno partecipanti ma maggiormente coinvolti)
  • più economiche
  • meno entropiche
  • meno frustranti

Ci sarebbero meno partecipanti maggiormente coinvolti e meno “spettatori” frustrati da quella sensazione vivida di aver sprecato il proprio tempo senza aver creato valore aggiunto.

Le caratteristiche di una grande squadra.

Una grande squadra ha poche caratteristiche:

  • Non è perfetta ma minimizza le imperfezioni ed esalta le caratteristiche positive dei singoli
  • E’ un tuttuno in cui il singolo ha il proprio ruolo ed il proprio spazio all’interno di un “cerchio di sicurezza” in cui è libero di sbagliare, sperimentare e perfezionarsi
  • Conta sempre molto di più di qualsiasi individualismo
  • Ha un allenatore che è disposto a fare per i propri giocatori molto di più di quello che lui stesso si aspetta da loro.

Se il tuo team di lavoro ha queste caratteristiche… allora hai una grande squadra (e tu, probabilmente, sei un grande leader)

Se invece non hai una grande squadra… allora hai 4 elementi su cui lavorare

Come fare a raggiungere “l’eccellenza”

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Come raggiungere l’eccellenza?!?

Il concetto di eccellenza si raggiunge solo dopo aver stabilito e chiarito quale è il proprio concetto di successo.

Spesso l’errore comune è cercare un lavoro ben remunerato (sotto pressioni esterne ed inseguendo quelli che sono considerati fattori di successo dalla società), e poi pretendere di farlo in maniera “eccellente”.

Ma per mangiare con gusto bisogna prima scegliersi il piatto… e pretendere di essere il mangiatore più veloce del mondo ingurgitando una pietanza scelta da altri è un’impresa al limite dell’impossibile.

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L’eccellenza parte prima di tutto da una scelta personale e difficilmente si raggiunge inseguendo modelli di successo imposti dall’esterno.

Il successo è un concetto anch’esso molto personale e varia da persona a persona in base ai valori dell’individuo.

Il problema di raggiungere l’eccellenza nell’ambiente di lavoro è spesso legato a ciò che intimamente riteniamo fattori di successo.

Se veramente ritengo che diventare un membro del consiglio di amministrazione rispecchi esattamente il mio concetto personale di successo (ovvero il mio “pallino” fin dalla nascita), allora è probabile che riesca ad eccellere mentre faccio tutto quello che mi porterà un giorno ad essere parte del “board”.

Il vero motivo per cui pochi raggiungono l’eccellenza professionale è che spesso quelli che crediamo fattori di successo sono quelli suggeriti dalla società (un posto riservato nel parcheggio aziendale o la macchina del caffè personale in ufficio) e poco quelli che sono invece frutto di quello che vogliamo intimamente o dei nostri punti di forza (che sono invece su cui puntare per raggiungere “l’eccellenza”).

Pensare di raggiungere l’eccellenza, in ambiti di successo progettati da altri, è come pretendere di diventare il più grande scalatore del mondo quando intimamente siamo grandi nuotatori.

Viceversa pensare che i propri dipendenti raggiungano l’eccellenza proponendo un modello univoco di “successo”, porta all’errore di pretendere che a tutti piaccia la disciplina del salto con l’asta… rendendo le olimpiadi estremamente monotone e piene di atleti mediocri..

Quella che può sembrare una banalità è in realtà un fattore determinante non solo per il raggiungimento dell’eccellenza ma anche per evitare una frustrazione perenne (e costi incalcolabili di improduttività per intere aziende e società).

La maggior parte delle persone è incapace di raggiungere l’eccellenza non perché non mancanti di capacità ma perché semplicemente impiegate in professioni che non fanno leva sulle loro caratteristiche e propensioni.

L’eccellenza si raggiunge solo a condizione di rimanere fedeli a se stessi, a quello che si crede ed al proprio modo di intendere la vita e la professione: tutto il resto sono proiezioni esterne che per quanto forti non riusciranno a far spuntare le pinne ad una volatile (o le ali ad un pesce).

Se un neolaureato mi chiedesse come fare a raggiungere l’eccellenza non gli suggerirei di cercarsi un lavoro ben pagato per poi sforzarsi di eccellere, ma gli consiglierei di cercare qualcosa che  rispecchia le sue attitudini e desideri…e poi aspettare che i soldi arrivino da sé una volta raggiunta l’eccellenza (un processo naturale che non può essere “forzato”).

Se un’azienda mi chiedesse come fare a raggiungere l’eccellenza, gli suggerirei di abbandonare criteri univoci di successo e di stimolare le persone a capire ed esplicitare quali sono i parametri che considerano importanti (per poi accoglierli e metterli in chiave con il risultato operativo).

L’eccellenza è prima di tutto una questione di allineamento di intenti, sforzi e propensioni personali: agire in modo differente (rincorrendo un lavoro solo perché gli altri ti dicono che “è un buon lavoro”), serve solo a raggiungere risultati “sufficienti” con sforzi notevoli ed in archi di tempo estremamente lunghi.

La società, le famiglie e le aziende dovrebbero invertire i paradigmi ed invece di legare i propri risultati ad una gamma limitata di modelli unici di successo (pretendendo che 7 miliardi di persone diverse puntino tutti nella stessa direzione), dovrebbero spingere le persone riflettere e lavorare sui propri modelli di successo… per farli eccellere in discipline diverse che concorrano all’ottenimento di risultati veramente eccellenti (anziché uniformare tutti e cercare di “vendere” come di successo, modelli che per molti sono assolutamente estranei).

ito lavorativo cosa può definirsi “eccellenza”?!?

Il concetto di eccellenza si raggiunge solo dopo aver stabilito quale è il proprio concetto di successo.

Il successo è un concetto molto personale e varia da persona a persona in base ai propri valori: c’è chi lo identifica nel fare cose che rendono il mondo migliore e chi in cose che migliorano o fanno sentire bene esclusivamente se stessi.

Il problema di raggiungere l’eccellenza nell’ambiente di lavoro è quindi legato a ciò che intimamente riteniamo fattori di successo.

Il vero motivo per cui pochi raggiungono l’eccellenza professionale è che spesso quelli che crediamo fattori di successo sono quelli suggeriti dalla società (un posto riservato nel parcheggio aziendale o la macchina del caffè personale in ufficio) e poco quelli che sono invece frutto di quello che vogliamo intimamente o dei nostri punti di forza (che sono invece su cui puntare per raggiungere “l’eccellenza”).

Pensare di raggiungere l’eccellenza (frutto delle nostre caratteristiche peculiari), in ambiti di successo progettati da altri è come pretendere di diventare il più grande scalatore del mondo quando intimamente siamo grandi nuotatori.

Quella che può sembrare una banalità è in realtà un fattore determinante non solo per il raggiungimento dell’eccellenza ma anche per evitare una frustrazione decisamente troppo diffusa nelle aziende..

Siamo incapaci di raggiungere l’eccellenza non perché non siamo capaci in assoluto ma perché semplicemente inseguiamo parametri che non ci appartengono intimamente.

L’eccellenza la raggiunge chi ha veramente chiari quali sono i propri fattori “di successo”… ed ha la forza e la determinazione di intraprendere azioni costantemente coerenti agli stessi.

Se pensiamo di considerare i fattori di successo degli altri come fattori di successo a cui aspirare, difficilmente riusciremo ad ottenere “l’eccellenza”.

L’eccellenza si raggiunge solo a condizione di rimanere fedeli a se stessi, a quello che si crede ed al proprio modo di intendere la vita e la professione: tutto il resto sono proiezioni esterne che per quanto forti non riusciranno a far spuntare le pinne ad una volatile (o le ali ad un pesce)… o a far eccellere

P.s: i pochi dirigenti che ho visto “eccellere” sono persone che hanno intrapreso con tenacia e costanza una serie di azioni in totale conformità con il proprio sistema di valori (fosse quello di raggiungere un posto in CdA o quello di diventare un leader carismatico a servizio di tutti).

Metti al sicuro il tuo futuro (#37/2021)

Di Jay Samit pag. 284 10 Agosto 2021 (ovvero spostare il focus su qualcosa di più produttivo del giudizio esterno);

Come coltivare una mentalità orientata alla crescita..

Con l’avvento della “società liquida”, delle carriere allungate e della necessità di sviluppare dinamicamente competenze sempre nuove, questo libro contiene utili rivisitazioni di parabole “classiche” ma anche validi suggerimenti pratici per tenere viva la fiamma dell’apprendimento costante (unica via per il miglioramento continuo in qualsiasi settore).

Fra le pratiche suggerite:

1)     Cominciare ad imparare, smettendo di vedere quello che si fa in termini di successo o fallimento ma vivendolo come occasione per migliorare (ovvero provare a cambiare mentalità, allontanandosi dagli schemi imposti);

2)     Non cercare nè l’approvazione nè le critiche ma feedback funzionali all’apprendimento (spostare il focus sul proprio miglioramento e non sulle differenze rispetto a qualcosa/qualcuno);

3)     Annotare i propri progressi… tenendo un diario quotidiano e facendo attenzione al linguaggio utilizzato per descrivere obiettivi ed azioni (serve per migliorare la qualità degli obiettivi e del pensiero con inevitabili ripercussioni su come vediamo il mondo e sulle nostre relazioni);

4)     Concentrare l’attenzione sulla propria identità invece che sull’immagine che vogliamo dare agli altri (spostare il focus su qualcosa di più produttivo del giudizio esterno);

5)     Imparare dagli errori degli altri e non solo dai propri (aumentando il numero di “lezioni apprese”);

6)     Praticare la gratitudine come antidoto al pensiero negativo (distogliere l’attenzione sulla mancanza di un jet privato e concentrandola sulla possibilità di avere acqua calda incide non poco su umore, “reattività” e produttività).

Con un taglio molto pragmatico, tutti i consigli sopra descritti (mutuati per lo più da Seligman e dal filone della psicologia positiva), sono stati attualizzati al mondo del lavoro odierno, intrecciandoli con una realtà fatta di smartworking e paradigmi rivisitati nell’ottica di un capitalismo più sostenibile.

Quando l’ascolto può renderti un “visionario” (o farti fallire)

Quando l’ascolto può renderti un “visionario” (o farti fallire) Nel 2000, un uomo che aveva una piccola società che noleggiava DVD a domicilio, riuscì con un trucco ad incontrare John Antioco, il CEO di Blockbuster, proponendogli una collaborazione per gestire il nuovo business online in un’epoca in cui il “digitale” cominciava appena ad affacciarsi alla porta. Per tutta risposta, il CEO di Blockbuster gli rise in faccia dicendo che aveva già  milioni di clienti e migliaia di punti vendita di successo: doveva pensare ai soldi e non era interessato a nuove idee. L’uomo uscì dalla porta sconsolato… poi si rimboccò le maniche e fondò Netflix… Dieci anni dopo, il noleggio fisico tramontò definitivamente: il CEO di Blockbuster era troppo concentrato sullo sfruttamento di un modello di business già di successo tanto da non riuscire a vedere ciò che gli veniva proposto.. (Blockbuster dichiarò fallimento nel 2013 dopo più di vent’anni di “supremazia”) Qualsiasi manager con un minimo di “visione”, dovrebbe guardare ad un dipendente, un collega, un collaboratore o qualsiasi bussi alla sua porta come una risorsa e non come una perdita di tempo (non che manchino le persone che fanno perdere tempo… ma fra queste può sempre nascondersi qualcuno che può fare la differenza). Ragionare fuori dagli schemi, contaminarsi con un millennial, ascoltare qualcuno che entra in ufficio con una nuova idea, ed avere cura di tutti gli stakeholders (muovendosi verticalmente all’organizzazione anziché orizzontalmente o esclusivamente “in alto”), può contribuire a fare di un CEO un CEO visionario. Se John Antioco l’avesse fatto… probabilmente Netflix sarebbe esistita sotto il nome di “Blockbuster” e la stessa “Blockbuster” sarebbe stata ricordata come la “Apple” dell’entertainment: un’azienda in grado di evolvere nel tempo e di resistere al mercato innovando continuamente.. Rinunciare a diventare dei leader “visionari” per non aver ascoltato qualcuno è un vero peccato… P.S: se vi chiedete se quello di Blockbuster possa essere un caso isolato,  andare a vedere cosa è successo a Kodak (monopolista della fotografia analogica poi relegata ad azienda che realizza pellicole fotografiche per nostalgici della fotografia)… o a Nokia (monopolista della telefonia in epoca antecedente all’avvento degli smartphone ed ora ricordata solo per il modello 3310).

Fish (#36/2021)

di Stephen C. Lundin, Harry Paul e John Christensen pag. 183 03 Agosto 2021

Fish è l’esperienza del mercato del pesce di Seattle: un luogo in cui i dipendenti sono così intraprendenti da trasformare il proprio luogo di lavoro in un posto piacevole in cui passare tempo di qualità.

Attraverso la parabola di come si può modificare un ambiente poco gradevole cambiando prospettiva, FISH racconta di come le persone possono fare la differenza, applicando 4 pratiche a prescindere dalle condizioni al contorno.

Le 4 pratiche di questo libro sono finalizzate a costruire fiducia e lavoro di squadra, migliorare il servizio clienti, rafforzare la leadership ed aumentare la soddisfazione dei dipendenti partendo da:

  • La scelta del proprio atteggiamento: “esiste sempre la possibilità di scegliere il modo in cui svolgere il proprio lavoro, anche se non possiamo scegliere il tipo di lavoro” (e senza il principio della possibilità di scelta, tutto il resto è uno spreco di tempo)
  • La ricerca di modalità e spazi per giocare e scherzare con i propri stakeholders, prendendosi meno sul serio e cercando di creare un’esperienza piacevole per tutti
  • La volontà di darsi uno scopo più alto dell’operatività, concentrandosi su come rendere migliore un prodotto o un servizio… e ponendosi l’obiettivo di migliorare la giornata delle persone con cui entriamo in contatto (facendo leva sul coinvolgimento)
  • La decisione di essere “presenti” nel qui ed ora, concentrandosi su quello che si fa, sui nostri interlocutori e sulle diverse relazioni che abbiamo (col barista per la pausa caffè, nello scambio quotidiano con i colleghi, nel rapporto con i nostri responsabili)

Un libro a tratti eccessivamente semplice, che nonostante questo rende l’idea di come attingendo alle proprie capacità personali è possibile fare la differenza uscendo dagli schemi e trasformando il proprio ambiente a prescindere dalle condizioni in cui ci si trova ad operare.