Porre attenzione VS avere attenzione

Perché nel lavoro “porre attenzione” dà più risultati che “avere attenzione” ..

Siamo abituati a cercare di catalizzare l’attenzione piuttosto che a porla…

Eppure, in ogni campo, “porre attenzione” fa quasi sempre la differenza.

L’evoluzione dei prodotti/servizi è stata spesso accelerata perché si è posto attenzione a delle “esigenze” (Bezos  prima di “ricevere attenzione” come uomo più ricco del pianeta, ha posto attenzione a come poteva servire al meglio i propri clienti).

La scienza ha fatto passi da gigante perché qualcuno ha posto attenzione a fenomeni invisibili alla maggior parte degli occhi (quando Fleming scoprì la penicillina da una muffa, un medico italiano aveva notato la stessa muffa all’interno di un pozzo ardesiano ed un’altra ricercatrice all’interno di un melone)

Nelle organizzazioni, la differenza la fanno sempre i leader che pongono attenzione alle persone piuttosto che coloro che cercano di avere attenzione.

In un mondo veloce, frenetico ed in continuo cambiamento, saper osservare, leggere fra le righe o cogliere esigenze che sfuggono ad un occhio poco attento rappresenta un vantaggio competitivo.

E molte delle #softskills o delle meta-competenze più discusse (#empatia ed #ascoltoattivo su tutte), sono semplicemente un richiamo al “porre attenzione”.

Come accelerare qualsiasi tipo di evoluzione (tecnologica, organizzativa etc.)

C’è un modo semplice e gratuito per contribuire ad accelerare l’evoluzione… Consiste nel condividere un’idea oltre a limitarsi ad apprezzarla. Uno dei più grandi poteri dei social è la possibilità di condivisione: non i like, non le stories, non i post ma la ri-condivisione dei contenuti. La teoria dei sei gradi di separazione dice che in sei passaggi possiamo raggiungere qualsiasi persona nel mondo… allo stesso modo un’idea in sei condivisioni può potenzialmente raggiungere sette miliardi di persone. Se tutti condividessimo le buone idee degli altri (non solo sui social ma anche all’interno delle organizzazioni magari istituendo un “social” delle idee di miglioramento), l’evoluzione farebbe passi da gigante.. Perché oltre alla diffusione, un’idea intrinsecamente buona può essere fonte di ispirazione per altre persone che la prendono, la migliorano e la passano a loro volta (aggiungendo il contributo che può portare la “diversità” a quello portato dalla “diffusione”). Quando trovi un post interessante, una nuova idea che può risolvere un problema di molti, una prospettiva migliore per fare le cose non limitarti a mettere un like o ad apprezzarla ma condividila. Può far bene all’umanità o alla comunità per cui lavori (e se fa bene a loro c’è un’ottima probabilità che faccia bene anche a te).

Quando dare un feedback per renderlo efficace?!?

Si parla molto di come dare un feedback ma poco di quando darlo..

Eppure tutti i momenti non sono uguali… e per essere efficaci è fondamentale individuare il “momento migliore” per chi il feedback lo deve ricevere..

Si possono studiare manuali interi o leggere infiniti libri su come dare un feedback… ma se non si sceglie il momento giusto, ogni sforzo può essere inutile perché il feedback è come un vestito: può essere cucito alla perfezione ma se non si azzecca la “stagione giusta”, il risultato non è garantito..

Così come la nostra predisposizione all’ascolto varia dal risveglio al momento del rientro a casa (magari dopo 10 ore di riunioni), così anche chi riceve un feedback ha i suoi “momenti” di maggiore o minore ricettività.

Essere consapevoli di questo effetto ed agire di conseguenza può fare la differenza.. sia nei risultati che nella relazione con i propri collaboratori, responsabili e colleghi…

XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX

Dare e ricevere feedback: non importa solo come ma anche “quando”..

In tutte le aziende strutturate, ci sono processi e procedure anche relativamente all’erogazione dei feedback da dare a dipendenti a collaboratori.

Il problema di strutturare schematicamente un processo di feedback, è che questo comporta individuare dei momenti fissi durante l’anno (ad esempio durante fine Giugno o fine Dicembre).

Ma quanto è efficace dare feedback a tutti i dipendenti nello stesso preciso momento?

Vista la variabilità delle caratteristiche della persona, tendenzialmente si potrebbe dire poca: un feedback andrebbe dato quando la persona che lo riceve è “ricettiva” allo stimolo …e questo difficilmente capita nello stesso momento per tutti i nostri colleghi/capi o collaboratori.

Se si organizza una review a fine anno può darsi ad esempio che un nostro collaboratore sia più concentrato al regalo da fare alla moglie piuttosto che a quello che gli stiamo dicendo (in alcuni casi succede anche il contrario… con risultati buoni per la professione ma un po’ meno per la vita familiare..)

Il concetto del “tempismo” non si applica solo ai feedback: se cerco di comunicare qualcosa al mio capo, meglio farlo la mattina prima delle 9:00 piuttosto che il pomeriggio dopo ore ed ore di interminabili riunioni..

Analogamente, se dobbiamo dare input ad un collega affamato, meglio farlo dopo il caffè che prima di andare a pranzo (quando la fame chimica può distogliere l’attenzione dall’obiettivo primario di riempire lo stomaco).

Ognuno di noi ha dei ritmi biologici e fisiologici che hanno poco a che fare col lavoro ma che spesso sono funzione di come siamo, dei “momenti che attraversiamo” e delle pressioni interne ed esterne che subiamo.

Il grado di ricettività ad un feedback (e quindi la sua efficacia), cambia anche durante il corso della propria vita professionale: da giovani uno stesso input viene recepito e metabolizzato in maniera completamente diversa rispetto a quando sono passate “diverse” primavere lavorative..

In conclusione, il momento giusto per il feedback non è uguale per tutti e questo rende difficile che un processo “pianificato” due volte l’anno possa essere efficace per chiunque.

Soluzioni?

I feedback dovrebbero essere dati durante tutto il corso dell’anno, in base alla relazione ed al rapporto, in base alla persona ed al momento che sta attraversando (compatibilmente ovviamente con gli obiettivi professionali attesi): se siete buoni ascoltatori non avrete problemi ad individuare il momento giusto… e se non lo siete il consiglio è quello di diventarlo visto che questa meta-competenza sarà sempre più fondamentale..

Le sessioni “fisse” di feedback generalmente schedulate a metà o fine anno dovrebbero essere solo momenti di “check”: funzionali ad allinearsi ed a consolidare una relazione costruita passo dopo passo durante lo stesso anno (cosa che peraltro aumenta il rapporto di fiducia ed evita sorprese dell’ultimo minuto).

Il processo di feedback dovrebbe essere strutturato ma non schematico: come un vestito, dovrebbe tenere conto delle singole persone ma anche della “stagionalità”… in modo da essere realmente efficace ed assolvere appieno alla sua funzione di “miglioramento”.

D’altronde nessuno di noi è una macchina e nessuno ha sempre la stessa ricettività nel corso del tempo (qualsiasi sia l’arco temporale preso a riferimento)… pertanto è ragionevole supporre che anche le persone con cui lavoriamo quotidianamente abbiano le stesse “variabilità” di cui tenere conto se si vuole essere davvero “efficaci”.

Ego è il nemico (#41/2021)

di Ryan Holiday pag. 192 01 Settembre 2021

Chiunque esiste ha un ego… e chiunque voglia “continuare ad esistere” migliorandosi in una qualsiasi sfera della vita, dovrebbe imparare ad averci a che fare.

L’ego è una parte importante ed imprescindibile del sè: ha grandi potenzialità ma potenzialmente può fare anche un’enorme quantità di danni.

Una mancata gestione dell’ego può portare a rapporti disfunzionali e ad attriti che compromettono gli obiettivi di qualsiasi interazione (in qualsiasi ambito).

Più si ricoprono ruoli di responsabilità e più è importante domare una parte in grado di trasformare radicalmente ogni tipo di rapporto (influenzando indirettamente anche i risultati).

L’ego più che un nemico (come lo definisce l’autore del libro), è assimilabile ad un’organo all’interno di un essere vivente: è fondamentale per la sopravvivenza ed il suo modo di funzionare può rendere l’intero organismo o sano o malato.

Questo testo insegna come gestire ed addomesticare l’ego in modo da indirizzare le energie sulle cose davvero importanti, raggiungendo i risultati attesi e producendo il miglior lavoro possibile…

…un obiettivo di primaria importanza per chi, per professione o per propensione, si ritrova posizioni in grado di influenzare una moltitudine di persone.

Aziende e comunicazione: come la qualità delle mail interne migliora l’operato (e perchè)

L’operato di un’azienda è fortemente legato alla sua comunicazione: generalmente si cura molto più quella esterna perché spesso ci si preoccupa molto più dell’immagine che del proprio operato.

Eppure è la qualità della comunicazione interna che incarna realmente i valori e la cultura vigente all’interno dell’organizzazione (determinando chi siamo e come lavoriamo realmente).

Per questo dovrebbe esserci un pool di persone dedicate ad una comunicazione interna che non si occupi solo di newsletter ed informative ma anche di verificare come i dipendenti comunicano fra loro, di come i responsabili comunicano con i propri collaboratori e di come i dipartimenti parlano fra di sè… (con una verifica volta a generare feedback e miglioramenti).

Questo passaggio, sottile ma significativo, costituisce uno degli strumenti  più efficaci per verificare (a partire dalle mail che mandiamo), se quello che comunichiamo è allineato o meno ai valori ed agli obiettivi aziendali che dichiariamo internamente ed esternamente.

E’ una questione fondamentale: per cambiare il paradigma ed avere aziende veramente “innovative” bisogna non solo saper ascoltare ma sapersi ascoltare collettivamente… perché come giudichiamo la buona educazione di un bambino da come si esprime (verbalmente e non), allo stesso modo possiamo giudicare l’operato di un professionista e di un’intera organizzazione allo stesso modo.

Se veramente “siamo quello che comunichiamo”, allora vuol dire che la comunicazione interna e le nostre “e-mail” determinano anche come lavoriamo.

Allineare la comunicazione, verificare che questa rifletta effettivamente i principi etici, morali ed operativi che vogliamo perseguire a livello organizzativo, è anche un ottimo modo per far parlare di noi esternamente… potendo allocare meno budget alla comunicazione della nostra immagine e concentrandosi di più sul miglioramento delle nostre professionalità.

Perché i CEO dovrebbero essere come il mio amico Giacomo (che fa l’elettricista)

Il mese scorso Giacomo ha rotto il suo trattorino tagliaerba..

L’ho scoperto per caso ed appena l’ho saputo gli ho prestato il mio senza pensarci su.

Usandolo, ha rotto la cinghia ed entrambi siamo rimasti senza un ausilio meccanico piuttosto utile…

Abbiamo risolto il problema velocemente: io ho fatto arrivare una cinghia fuori produzione in due giorni, lui ha procurato gli attrezzi ed insieme l’abbiamo montata, rimettendo in sesto il trattorino, tagliando l’erba, e condividendo un momento insieme.

Non presto volentieri attrezzi agli altri non perché siano costosi o abbia paura di rotture/danneggiamenti ma per un motivo molto semplice: difficilmente trovo qualcuno disposto a fare lo stesso con me (il che non rende di me necessariamente un egoista, ma neanche un esempio virtuoso).

La logica dell’individualismo imperversa sia dentro che fuori dalle aziende: tutti ne siamo influenzati e prima di arrivare nei consigli di amministrazione, parte dalle competizioni sportive, dalle scuole e dalle famiglie (prima mangi tu poi, se proprio ti avanza qualcosa, lo dai a quello che poi chiami un tuo “amico”).

Giacomo è diverso: non si cura degli schemi e delle convenzioni, è allergico al “do ut des” e pratica la condivisione ed il libero scambio.

Se lo chiami per un qualsiasi problema, accorre in tuo aiuto senza aspettativa alcuna (l’anno prima aveva speso due fine settimana a montare una casetta in legno nel mio giardino.. al prezzo di una bevuta).

Se Giacomo fosse il mio CEO, non solo gli presterei il trattorino (senza pretendere salti di carriera), ma sarei disposto a lavorare per lui indipendentemente dalla fatica, dallo stipendio o da altri tipi di gratificazione.

Grazie a Giacomo sono riuscito a fare cose che non sarei riuscito a fare da solo e che sicuramente non ho visto fare a vicini dotati di attrezzature migliori ma senza nessuno disposto ad aiutarli.

Giacomo non ha tutte le competenze per fare il CEO… ma se tutti i CEO fossero come Giacomo… allora andremmo avanti con un altro passo: le aziende avrebbero un “mindset” differente, produrrebbero molto di più e lavorarci sarebbe molto più divertente e “significativo”.

Non è solo una questione di “amicizia” incondizionata o di spirito comunitario… è soprattutto una questione di “logica” operativa: comportamenti più virtuosi portano ambienti più efficaci (con buona pace dei “vicini” che stanno a guardare).

Il perché della “contaminazione” in azienda..

Sempre più aziende iniziano a cercare candidati con un alto tasso di “contaminazione”..

Professionalità che hanno lavorato in molteplici contesti ed a contatto con un’ampia gamma di culture: persone con estrazioni ed esperienze diverse, capaci di creare connessioni fra discipline e saperi differenti e di sfruttare il pensiero laterale per risolvere problemi complessi.

Perché?

Un contaminato riconosce la diversità e ne sfrutta i punti di forza: riesce ad accedere a diversi “mindset” a seconda della sfida che gli si presenta davanti.

E’ più elastico e poliedrico: maggiormente in grado di sfruttare le potenzialità di una “cassetta degli attrezzi” diversificata e di trovare soluzioni laddove un ragionamento più schematico può porre grossi limiti.

La contaminazione è inoltre fondamentale per avere a che fare con uno sviluppo tecnologico che pone sfide sempre nuove e che richiede competenze in grado di aggiornarsi continuamente (difficilmente a disposizione di una singola persona).

Dibattiti sempre più spinosi e difficili (come quello fra scienza ed etica riproposto con l’avvento dell’intelligenza artificiale), richiedono approcci a tutto tondo che possono essere affrontati solo grazie a contributi multidisciplinari e multiculturali.

Più universale, globale e complesso è il problema, più si ha bisogno di un approccio universale, globale e complesso (riscontrabile con maggiore probabilità in chi si è “contaminato”).

Come un anfibio sopravvive meglio in un ambiente a cavallo fra l’emerso ed il sommerso, così un contaminato può affrontare meglio sfide ibride come quelle che si delineano negli scenari macro-economici attuali.

Peraltro l’approccio “multipotenziale” o da “contaminato”, è sempre stato centrale nelle figure cardine che hanno determinato passi in avanti significativi nell’evoluzione (erano “contaminati” L. Da Vinci, A. Turing, N. Coperinco, N. Tesla, M. Curie, T. Edison. S. Jobs e molti dei più grandi “innovatori” della storia).

Abbiamo cominciato in passato a “contaminare” discipline differenti (facendo crescere le persone orizzontalmente alle organizzazioni e spostando venditori al project management o viceversa)… adesso stiamo capendo l’importanza di diversità, inclusione ed ambienti multiculturali… nel prossimo futuro si porrà il tema della “contaminazione” fra uomo e macchina (per sfruttare le potenzialità dell’uno e delle altre)…

La contaminazione si pone come una delle strade maestre per il miglioramento della nostra specie e dei risultati che si possono ottenere in ambito professionale e non…

C’è da scommettere che le aziende che faranno leva su questo aspetto avranno un vantaggio competitivo enorme sulle altre (ed i candidati “contaminati”, un vantaggio competitivo su tutti gli altri).

Per approfondimenti: contminati di Giulio Xhaet, la mappa delle culture di Erin Meyer, Mindset di carol Dweck, Diventa chi sei di Emilie Wapnick

Perché investire in competenze diversificate..

“Non mettere le uova in un solo paniere” è una celebre frase di Warren Buffet applicata agli investimenti finanziari che vale anche per gli investimenti in competenze e professionalità..

Mettere le uova in un solo paniere vuol dire rischiare di perdere tutto nel caso in cui il paniere cada o si rompa per un qualsiasi motivo non dipendente dal nostro controllo.

Se investiamo anni della nostra carriera sviluppando una sola competenza, diventeremo personale “altamente specializzato”.. ma con il rischio altissimo di rimanere a terra nel caso di improvvisi cali di mercato o di obsolescenza della nostra “super-competenza”.

D’altronde è ormai un dato di fatto che la “durata media delle proprie competenze” segue lo stesso andamento della vita media delle aziende (in crollo vertiginoso da 50 anni a questa parte): mestieri che esistevano da decenni sono scomparsi improvvisamente, a scapito di altri che non esistevano fino a 10 anni fa (come ad esempio i richiestissimi “UX designer o gli esperti in intelligenza artificiale”)

Rimanere nella zona di comfort di una competenza sviluppata in decenni può pertanto costare caro quanto mettere “tutte le uova in un solo paniere”.

La pluralità delle competenze diventerà uno standard  e la mancanza di supercompetenze sarà comunque mitigata dal progresso e dalle macchine (può non essere auspicabile ma è una conseguenza naturale delle accelerazioni imposte dall’evoluzione odierna).

Accrescere le proprie competenze in campi diversi sarà come posizionare le proprie uova in contenitori differenti… ed avere maggiore probabilità di poter sopravvivere nel caso qualcosa vada storto..

Ciò che vale per gli investimenti finanziari (in cui nessuno si sognerebbe di puntare tutto su un’unica azienda), vale anche per gli investimenti in competenze e professionalità.

Meglio muoversi per tempo..

#learning #competenze #lifelonglearning #investimenti

Imparare l’ottimismo (#40/2021)

di Martin Seligman pag. 374 24 Agosto 2021

Come cambiare la propria vita professionale (e non), cambiando il pensiero..

Plurime statistiche identificano come le persone ottimiste abbiano generalmente maggior successo dei pessimisti (che tuttavia si dimostrano più “realisti” nei confronti della realtà che li circonda).

Per una vita soddisfacente e “di successo” (qualsiasi sia l’accezione che si attribuisce al concetto di “successo”), è necessario avere un “ottimismo flessibile”, che attinga dalle enorme risorse sprigionate dagli ottimisti ma che tenga conto del realismo dei pessimisti.

Per essere “ottimisti flessibili”, Seligman suggerisce in questo testo un percorso in quattro passi:

  • riconoscere il proprio stile esplicativo (ossia quel che diciamo a noi stessi di fronte alle avversità);
  • neutralizzare l’abitudine al pessimismo ed alla scarsità di resilienza attraverso tecniche e metodi pratici (descritti nel libro);
  • adottare modalità di pensiero più efficaci per il benessere fisico e psicologico;
  • aiutare gli altri (partendo dai figli, con l’educazione) a riconoscere le proprie caratteristiche e ad adottare modalità più efficaci in rapporto ai risultati attesi.

Molti innovatori dei nostri tempi e molti leader carismatici sono stati “ottimisti flessibili”… persone che hanno avuto una “visione” di qualcosa che non esisteva e che hanno perseverato nelle proprie azioni grazie all’ottimismo flessibile, che ha consentito loro di superare gli ostacoli con realismo ma con quel giusto grado di positività necessaria a sostenere la necessaria “resilienza”.

L’ottimismo non è una formula magica: è tendenzialmente una caratteristica comportamentale ma anche una modalità di funzionamento del pensiero che può essere appresa con la pratica…

E questo è un buon testo per iniziare con un po’ di esercizio..

Essere me, amare te (#39/2021)

di Marshall B. Rosemberg pag. 115 22 Agosto 2021

Una guida pratica per costruire solide relazioni partendo dalla comunicazione non violenta.

Si parla spesso di empatia, comunicazione non violenta, ascolto attivo e feedback… ma come metterli in pratica?

Rosemberg, padre della comunicazione non violenta, prova a descrivere dei metodi efficaci per imparare ad esprimersi in modo onesto e sincero, con lo scopo di rivelare trasparentemente le proprie intenzioni e di far arrivare il messaggio ai nostri interlocutori nel modo più efficace possibile.

Suggerisce quattro domande da cui partire per analizzare il proprio processo comunicativo in qualsivoglia sfera della propria vita, cercando di partire dall’osservazione dei bisogni e delle richieste implicite o esplicite di chi ci sta di fronte ,per portare la discussione su un piano efficace che tenga conto degli interessi e non delle “posizioni” (cosa il cui contrario porta spesso a situazioni di conflitto).

Un libro interessante per approfondire le dinamiche di azione e reazione che spesso scaturiscono nelle relazioni professionali e non e per capire come detonare la tendenza al giudizio che spesso caratterizza una comunicazione inefficace.

XXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXXX

Per manager ed organizzazioni:

Le organizzazioni sono fatte di persone che producono un risultato… ed il risultato è funzione di come le persone interagiscono fra loro e di come comunicano.

La comunicazione assertiva (o “non violenta”), ha risultati notevoli perché affonda le sue radici nelle caratteristiche sociologiche dell’uomo (a quale persona intellettualmente evoluta piace una comunicazione “violenta”?!?).

Via via che ci allontaniamo da organizzazioni viste come centri di potere con ruoli altamente formalizzati e gerarchici, la capacità di “ascoltare attivamente” e di “parlare non violentemente” assume un’importanza crescente.

Quella che prima era un aspetto irrilevante all’interno delle aziende (talvolta addirittura interpretato come segno di debolezza), diventerà sempre più una caratteristica chiave per avere successo e per ridefinire nuovi modelli organizzativi basati su empowerment e condivisione.

Gli effetti della comunicazione non violenta sono peraltro stati appannaggio di molti dei più grandi leader della storia: personaggi di spicco che oggi sarebbero perfetti come CEO delle organizzazioni 4.0 (personalmente trovo che la biografia di Mandela scritta da Richard Stengel sia uno dei manuali di leadership più brillanti mai scritti).

“Essere me, amare te” è un saggio lontano dal vecchio mondo organizzativo ma molto vicino a come le organizzazioni si stanno “reinventando” per adeguarsi ad un nuovo stadio di consapevolezza umana.

Nel cambio di paradigma in corso, imparare a comunicare efficacemente è uno dei fattori più importanti… sia per le nuove start up, che per le aziende tradizionali che ambiscono allo stesso livello di eccellenza delle multinazionali della Silicon Valley.

Motivo per cui un manualetto di nicchia come questo può essere un buon punto di partenza..