Prima regola non spammare…

Lavoravamo su un progetto da 1,5 miliardi di euro per la costruzione di 50 treni Frecciarossa 1000 per Trenitalia S.p.A. e il contratto che gestivamo come “mandataria” coinvolgeva una quantità enorme di stakeholders.

Dal mio capo dipendeva una struttura di centinaia di persone, ma lui scriveva e faceva meeting raramente.

Non aveva bisogno di controllare: di base si fidava di quello che facevamo ed evitava di inviare centinaia di mail o di organizzare riunioni inutili.

Era riuscito a creare un ambiente dinamico in cui ti sentivi coinvolto e parte di un “team” che lavorava per un obiettivo ambizioso.

Aveva tutto sotto controllo e adottava la strategia di farsi sentire poco e nei momenti giusti creando un effetto aspettativa : le poche mail che inviava, non solo venivano lette da tutti con la massima attenzione ma tutti facevano il possibile per rispondere velocemente.

Non per paura, non per stress ma per quelli che gli inglesi chiamano “committment” (in italiano niente altro che la “voglia di lavorare con passione”).

Ho avuto la fortuna di stargli a fianco in un periodo non proprio felice della mia carriera professionale, ma da lui ho imparato come si gestiscono centinaia di persone che lavorano a un progetto complesso.

Soprattutto ho imparato che se vuoi persone veramente “coinvolte”, devi costruire un ambiente di fiducia e rispetto in cui quando entri dalla porta, “immetti energia positiva” e una forte carica emotiva.

Per farlo, la prima regola d’oro è “non spammare” di mail, riunioni e allarmi inutili che invece di “immettere energia”, spesso finiscono per toglierla…. a volte irreversibilmente.

Se vedi competitor e nemici dappertutto, allora vuol dire che non stai innovando davvero…

Spesso consiglio post di persone o aziende che fanno coaching, formazione o consulenza e che teoricamente sono dei competitor.

Se “rubi” un mio contenuto non mi offendo purchè tu lo faccia come suggerisce Austin Kleon in “ruba come un’artista” (mettendoci qualcosa di “tuo”).

Ma non è sempre stato così: c’è stato un tempo in cui tenevo molto a proteggere il mio orticello, i miei “contenuti” e la mia “proprietà intellettuale”.

Poi le cose sono cambiate: ho iniziato a lavorare sui miei tratti distintivi, cercando un posizionamento unico.

Grazie a esperienze dirette o indirette con aziende e persone veramente “innovative”, ho capito che l’unico modo per differenziarsi davvero, parte dalla propria unicità e dalla capacità di prendere il meglio di ciascuno per portarlo in quello che facciamo.

Ispirarsi agli altri creando contenuti propri e lasciare che gli altri facciano lo stesso, aiuta a concentrarsi sull’obiettivo di “essere originali” (come suggerisce Adam Grant nell’omonimo best seller) e a fare sempre cose nuove.

E’ il passaggio dalla “competition” alla “coopetition”: qualcosa che alcune aziende stanno sperimentando per fare network e muoversi sulla cresta del cambiamento e dell’innovazione (negli States è partita Nike col progetto “Green X” mentre in Italia stiamo assistendo a partnership fra aziende storicamente in conflitto).

Collaborare con gli altri serve a creare una comunità in cui ci si ispira vicendevolmente creando sinergie e relazioni di lungo termine che servono per migliorare, innovare e vendere meglio il nostro prodotto o il nostro servizio.

Credere in se stessi è fondamentale…nella giusta misura.

Molti leader ci credono troppo, altri ci credono poco.

I primi soffrono dell’effetto Dunning Kruger (credono di essere più intelligenti di quanto non siano realmente), i secondi della sindrome dell’impostore.

Credere in se stessi nella giusta misura significa essere consapevoli dei propri punti di forza e farne un cardine per le proprie attività.

È un percorso lungo che non si raggiunge in un giorno ma che “è uno dei mattoni più importanti nella costruzione di ogni impresa di successo”… anche quando “l’impresa” siete voi.

Se cercate un talento per un’azienda innovativa, non guardate a quanto una persona è coscienziosa…

Ci sono cinque fattori di personalità che spesso sono usati per fare recruiting e per individuare i tratti caratteristici di un candidato.

Sono: nevroticismo, estroversione, apertura all’esperienza, gradevolezza e coscienziositá.

Generalmente, per lavori “standard”, la coscienziositá (ovvero la capacità di autocontrollo, l’affidabilità e il senso del dovere) è uno degli aspetti più richiesti e desiderabili.

Per la maggior parte dei lavori, la capacità di essere “coscienziosi”, è un fattore predittivo importante…

Ma non per lavori in cui c’è bisogno di talenti puri.

I talenti sono poco coscienziosi, non perché non abbiano un alto senso del dovere ma perché la loro genialità si porta inevitabilmente dietro la tendenza a uscire dal selciato.

Elon Musk non sarebbe stato un dipendente modello…

Le sue uscite (compresa quella di fumarsi uno spinello durante il podcast di Joe Rogan) sono “poco coscienziose”…

Ma un Elon Musk più moderato non avrebbe creato Tesla, Space X, Neuralink e Boring Company.

A volte i leader e i talenti sono persone cui tocca infrangere, o almeno forzare, le regole… Ed essere “coscienziosi” è un’ottima cosa per lavori standard, ma difficilmente è un fattore che porta a fare salti significativi verso qualcosa di innovativo..

Attenzione all’effetto “Bozo” in azienda..

L'”Effetto Bozo” è un concetto coniato da Steve Jobs, co-fondatore di Apple, per descrivere gli effetti negativi di una gestione incompetente.

“Bozo” era un clown diventato un’icona popolare in America fra gli anni ’50 e gli ’80: Jobs lo usava per identificare tutte le persone che avevano alte responsabilità ma scarse competenze (e che lui considerava, con la sua scarsa diplomazia, “clown aziendali”).

Jobs ebbe la prima esperienza “traumatica” con i “Bozo” quando fu licenziato dai membri del consiglio di amministrazione che lui stesso aveva contribuito a nominare (che decisero di “farlo fuori” nonostante fosse il proprietario dell’azienda e la persona più competente del board).

Da allora avrebbe menzionato più volte questo nomignolo nel corso del suo secondo mandato, per ricordarsi di non mettere più “Bozo” a prendere decisioni.

Come è successo in Apple, spesso accade che i “Bozo” cerchino di “eliminare” i propri competitor per una questione di sopravvivenza e perché mal tollerano di lavorare con professionisti migliori di loro.

L’effetto Bozo è pertanto deleterio perché diminuisce enormemente la qualità dei professionisti nelle posizioni apicali di un’azienda (le persone veramente capaci, prima di farsi “eliminare”, cercano sempre alternative migliori di quelle di essere circondati da “Bozo”).

Cercare persone migliori di noi è in genere un buon modo per evitare i “Bozo” (e per non esserlo a nostra volta): non a caso lo stesso Steve Jobs era solito enfatizzare molto l’importanza di lavorare con persone più competenti…

P.S.: se non siete “Bozo” e avete alte competenze in ambito di formazione (da spendere a favore della collettività), la tenda di NeNet è aperta.

La rivoluzione a piccoli passi..

Da quelle che possono sembrare “persone di successo” ho capito tre cose:

1) Mediamente si può essere “di successo” solo in una sfera o al massimo due della propria vita;

2) Il successo in una sfera costa tantissimo e spesso porta a grosse mancanze in tutte le altre;

3) Nessuno è mai riuscito ad arrivare al successo utilizzando scorciatoie (o facendo grandi salti).

Le lezioni che si possono ricavare:

– il successo non è mai univoco (quello che guardiamo degli altri è sempre e solo un aspetto);

– eccellere anche solo in un ambito, comporta sforzi e sacrifici enormi in tutti gli altri;

– i risultati sono sempre frutto di piccoli passi fatti con costanza e ripetuti innumerevoli volte (durante i quali non mancano cicli di regressione).

Quando ci ispiriamo a modelli che sembrano “di successo” è bene ricordarsi che niente è come sembra, che la narrativa è spesso distorta e che il concetto di successo stesso è relativo.

Quella che a noi sembra una rivoluzione è in realtà un’evoluzione che si fa solo “a piccoli passi”, in un percorso lungo ed estenuante fatto di piccole cose che, negli anni, possono fare la differenza..

“Così bravo che non potranno ignorarti”…

La maggior parte delle persone vivono in ambienti in cui si sentono sottostimate: contesti in cui spesso c’è l’abitudine a mettere l’accento più sulle cose che non vanno che su quelle che vanno e in cui il “sei bravo MA..” o il “potresti fare di più” sono all’ordine del giorno.

Sono posti in cui il potenziale non viene capito o considerato, spingendo le persone a un bivio in cui o si esce o si cerca di “diventare talmente bravi da non poter essere ignorati”.

Il titolo di questo libro di Cal Newport, è un’esortazione a continuare a formarsi, crescere, imparare e costruire un capitale di competenze.

Perché quando diventi talmente bravo da “non poter essere ignorato”, poi va a finire che non ti curi neanche più di chi lo fa… e questo è un vero e proprio lasciapassare per la felicità.

Grazie a Michele Riva per avermi regalato un testo che devo ancora leggere in italiano.. ma che ha ispirato qualcosa da inserire nelle #conversazioniestive promosse dalla redazione di LinkedIn Notizie.

PS: dello stesso autore, suggerisco anche “Deep work” (su concentrazione, gestione del tempo e produttivá)

La Silicon Valley è nata da un ambiente di programmatori che era il regno della “informalità”.

Steve Jobs a 18 anni venne assunto da Atari a prescindere dal fatto che fosse maleodorante, mal vestito e poco propenso a interagire con gli altri (sapeva programmare e questo era sufficiente).

Come disse il primo CEO di Netflix: “L’alta tecnologia è quanto di più vicino possa esistere a una vera meritocrazia”.

Perché?!?

Tutti i programmatori sono abituati a sottoporre i propri codici alla valutazione dei colleghi, che ne valutano l’essenzialità, la brillantezza o l’efficacia.

C’è un confronto continuo ed è tutto lì, nero su bianco: se il tuo codice è buono sei a posto, se il tuo codice fa pena, lo vedono immediatamente tutti quanti.

In un ambiente in cui il sapere è condiviso e il “valore” di quello che fai è facilmente percepibile, vieni valutato unicamente per la qualità tuo lavoro e nessuno si cura del tuo aspetto.

Qualcosa a cui ispirarsi per ambire ai risultati della “Silicon Valley”..

La scorciatoia (#38-2023)

Vagliano curriculum, concedono mutui, scelgono le notizie che leggiamo, ci suggeriscono cosa ascoltare, dove andare a cena e moltissime altre cose in base alle nostre preferenze: le macchine intelligenti sono entrate prepotentemente nelle nostre vite ma non sono come ce le aspettavamo.

Ci semplificano la vita e fanno molte delle cose che volevamo ma non possiamo capirle o ragionare con loro perché il loro comportamento è guidato da relazioni statistiche ricavate da una quantità di dati che anche la mente umana più sofisticata non può nemmeno provare a immaginare.

Con la loro velocità di calcolo e una disponibilità pressoché infinita di dati sensibili, possono fare previsioni e condizionare inconsapevolmente il nostro stile di vita.

Sono più potenti di noi: ci osservano continuamente e hanno il potenziale di condizionare le nostre scelte per perseguire scopi che non possiamo conoscere.

Abbiamo inventato l’intelligenza artificiale e non potremo più farne a meno, ma i rischi che questa possa portare a effetti collaterali incontrollabili è ancora tutto da quantificare.

Non possiamo spengerla (come scherzosamente provò a ipotizzare Obama in un’intervista alla rivista wired del 2016), per cui l’unica opzione possibile è quella di imparare a incorporarla senza rischi nella nostra società.

Questo testo (insieme a “incoscienza artificiale di Massimo Chiriatti) è uno dei più brillanti che abbia mai letto sul tema: in modo rigoroso e pungente, ci spiega come siamo arrivati dai “PC a schede” a macchine in grado di condizionare la nostra vita.

Adesso che abbiamo messo in connessione potenti algoritmi con miliardi di persone, ci stiamo rendendo conto che non solo questi sono influenzati dal nostro comportamento, ma che anche noi siamo influenzati da loro in una relazione simbiotica.

Perchè come disse Marshall McLuhan (filosfofo fondatore dei “media studies” che predisse la nascita del world wide web con 30 anni di anticipo): “Noi plasmiamo i nostri strumenti e poi i nostri strumenti plasmano noi”.

Un libro la cui lettura è imprescindibile per capire gli scenari che ci aspettano e che determineranno il nostro futuro nel brevissimo termine.

Cosa ti fa sentire vivo a lavoro?

Periodicamente è molto utile andare in profondità a questa domanda.

Io me la sono rifatta al rientro da un bootcamp (Luglio 2023)

Con altri 11 Executive coach di TPC Leadership – Italia abbiamo fatto training a un gruppo di 60 people manager di una multinazionale del settore farmaceutico.

Le risposte alla domanda “cosa ti fa sentire vivo” per me sono state (ancora una volta):

– Avere un alto livello di sfida;

– Lavorare con persone dall’altissima professionalitá di cui riconosco capacità e talenti;

– Creare un clima di sicurezza psicologica e un ambiente rilassato in cui tutti sono liberi di esprimersi;

– Avere piena fiducia da parte del committente;

– Condividere uno scopo che va oltre l’operatività (nel nostro caso creare un impatto).

Per me questo non è il primo lavoro o l’unico… e se devo aggiungere qualcosa a questo elenco, “decidere con chi lavorare” è senz’altro un altra cosa che fa la differenza.

Take away: Elencare cosa vi fa sentire vivi a lavoro e creare col tempo le condizioni per farle accadere è il primo grande passo verso un cambiamento.

Ci vuole tempo, ma ne vale la pena.

Location: casa Emergency, Milano