4 domande che le aziende dovrebbero farsi prima di richiedere una consulenza..

Perché le grandi organizzazioni hanno bisogno di ricorrere alla consulenza esterna?

Perché anche in presenza di decine di talenti, ciclicamente si ingaggiano aziende esterne per imparare competenze che dovrebbero essere disponibili anche internamente?

Quando è che una consulenza esterna è efficace e quando invece può arrecare più danni che benefici?

Chi nella sua carriera lavorativa ha affrontato diversi processi di cambiamento si sarà fatto almeno una volta queste domande.

E sebbene non sia sempre facile trovare delle risposte, spesso queste dipendono da tre fattori:

–         Quanto è forte il motivo che spinge all’ingaggio di consulenti

–         Quanto è trasparente il management

–         Quanto è efficace la comunicazione interna

La consulenza di per sé può accelerare processi di cambiamento… ma talvolta la mancanza di un “perché” forte e di una corretta comunicazione possono vanificarne l’efficacia..

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Quello della consulenza è un mondo strano, pervaso da aneddoti che giocano su una verità parziale: si paga un consulente per dirci quello che sappiamo già…

Provando ad analizzare a fondo il fenomeno, si scopre che la malcelata verità di alcune barzellette sui consulenti ha un fondo parziale…

Ricorrere ad una consulenza di per sé non è sbagliato: il problema sta all’origine del motivo per cui si richiede (oltre che nel modo in cui si gestisce..).

Il punto focale delle consulenze è che spesso vengono scelte per ragioni sbagliate ovvero:

–         Incapacità di individuare nuove soluzioni

–         Incapacità (o mancanza di volontà) di ricercare risorse interne che individuino nuove soluzioni

–         Cambi organizzativi e/o di cordata

Generalmente, l’unico motivo per cui si dovrebbe davvero chiedere una consulenza è un cambiamento RADICALE del proprio mercato ovvero  qualcosa che richieda una profonda revisione del proprio modo di operare alla luce di nuove tecnologie e nuovi metodi.

La consulenza è pertanto utile solo in casi in cui il contributo esterno porti elementi estranei al proprio business: soluzioni che richiedano connessioni multidisciplinari che diversamente un occhio troppo specialistico (eccessivamente focalizzato sul proprio settore e su metodi consolidati di operare), non riuscirebbe ad individuare.

In un mondo in cui l’informazione è sempre più disponibile ed in cui le grandi aziende hanno talenti generalisti in grado di collegare discipline diverse e di utilizzare il proprio “pensiero laterale”, la consulenza è sempre meno necessaria e prima di attingervi (spendendo budget multimilionari), bisognerebbe sempre capire perché è richiesta, se se ne può fare a meno e quali sono gli impatti sulla popolazione aziendale (che dovrebbe essere “preparata” sia per accoglierla positivamente che per raccoglierne il testimone una volta finita l’attività..).

In due parole, prima di decidere di andare verso un processo che potenzialmente può creare più danni che benefici, le organizzazioni dovrebbero “partire dal perché”.. e farsi almeno 4 domande:

Prima domanda: perché è necessaria?

Se la consulenza serve perché il management è incapace di elaborare nuove soluzioni (o soluzioni più adeguate a gestire i cambiamenti), allora questa porterà solo a “posticipare un problema” ed a tappare i buchi di uno scafo che è il momento di sostituire.

Se la consulenza serve perché non si è capaci (o non si ha la volontà) di individuare/promuovere risorse interne con potenziali capacità di affrontare/gestire/guidare il cambiamento allora si torna al punto precedente..

Se la consulenza serve a supporto di un nuovo management per implementare sistemi innovativi o se i cambiamenti sono tali da richiedere competenze trasversali specialistiche (o nuove tecnologie) allora si può passare alla seconda domanda…

Seconda domanda: serve davvero? Ho alternative?

Ovvero: la consulenza ha un valore intrinseco (diretto o indiretto)? Davvero non posso attingere ad una task force interna?

A questa domanda bisognerebbe saper rispondere senza esitazione, sapendo motivare per filo e per segno il perché non posso sfruttare le risorse interne.

In aziende grandi ci sono decine di persone con interessi e competenze fra le più variegate: spesso se ne trascura il potenziale, e non ci si chiede abbastanza approfonditamente se le risorse già a disposizione non possano essere in grado di individuare soluzioni adeguate ad un cambio di rotta.

Trascurare possibilità interne senza averle vagliate (e senza avergli spiegato perché non sono adeguate per sviluppare strategie appannaggio di consulenti esterni), può avere conseguenze negative sul lungo termine… perchè quando i consulenti se ne vanno rimarremo con risorse interne inevitabilmente demotivate..

Se non è questo il caso allora si può andare oltre..

Terza domanda: i consulenti verranno accolti nel modo giusto?

Nel caso non si possa proprio fare a meno di mettersi in casa professionalità esterne, bisognerebbe considerare un aspetto fondamentale: per quanto necessario, un consulente è comunque “un estraneo in casa”.. e prima di farlo entrare bisognerebbe verificare che tutti gli occupanti siano quantomeno resi edotti sul motivo che sta dietro l’invito..

Non domandarsi se i propri dipendenti hanno capito il motivo reale per cui si chiede una consulenza equivale a mettere un corpo estraneo all’interno di un organismo in equilibrio: con il risultato di un alto rischio di “rigetto”.

Le necessità aziendali vanno spiegate, motivate e sostanziate, in modo che le persone capiscano perché c’è la necessità di un vaccino per curare un male che il corpo umano non è in grado di “gestire” autonomamente..

Quarta domanda: Come si interfacciano i consulenti con la realtà esistente?? Hanno un piano di uscita?

Prima di fare entrare un ospite in casa bisogna sapere come si comporterà in casa nostra e soprattutto a che ora andrà via…

Invitereste qualcuno a fare le pulizie di cui non conoscete/riconoscete la professionalità?

E soprattutto, anche ammesso l’ospite abbia davvero la soluzione per le pulizie di casa, accettereste di tenerlo senza sapere quando se ne andrà?

Ovviamente l’esempio è provocatorio ma qualsiasi intervento esterno perturba un equilibrio ed è fondamentale avere un piano di uscita..

I padroni di casa (che in questo caso non sono solo i manager che optano per la consulenza ma anche tutti gli impiegati), devono sapere esattamente cosa gli ospiti vengono a fare, che strumenti utilizzeranno, cosa insegneranno e come (e quando se ne andranno via).

Il piano di uscita è fondamentale perché si porta dietro anche il modo con cui si rilascia “l’eredità” ovvero il valore aggiunto che l’attività di consulenza porta all’interno dell’organizzazione.. (se non è stata pianificata una continuità di pensiero e di azione, ogni risultato è destinato ad avere una durata limitata nel tempo).

In conclusione:

Le consulenze dovrebbero essere limitate a circostanze in cui si verifichino o un cambio repentino del mercato di riferimento o un’eccessiva obsolescenza nel proprio modo di operare: in entrambi casi non devono esserci alternative (ovvero la genesi dovrebbe essere ascrivibile alla necessità di un’iniezione di nuove tecnologie o capitali umani che abbiano esperienze diversificate in altri campi).

In questi casi la consulenza è in grado di essere utile, buttando in campo forze fresche e trovando nuove soluzioni per il business (o nuove metodologie di lavoro finalizzate ad una ripartenza efficace).

La consulenza è in molti casi un aiuto fondamentale per le aziende… ma visto l’elevato impatto che ha su ambiente e dipendenti, vi si dovrebbe attingere solo in casi eccezionali e solo una volta che il contributo che si intende apportare è stato motivato, circostanziato, spiegato e fatto metabolizzare/assorbire dalla forza lavoro.

Non è un’attività a costo zero (né per l’impatto economico che richiede, né per i cambiamenti e le perturbazioni che introduce): è per questo che la comunicazione assume un ruolo di importanza analoga alla scelta dei consulenti (che devono comunque entrare ed uscire in punta di piedi, fornendo elementi per riorganizzare il business ma mai impadronendosi del ruolo di guida).

Il ruolo di un consulente dovrebbe essere quello di un accompagnatore temporaneo: qualcuno che facilita dei processi inserendo elementi non invasivi e facendo in modo che questi vengano assimilati e riconosciuti, divenendo parte integrante di una nuova struttura in grado di portarli avanti stabilmente).

Le 4 domande e le relative risposte dovrebbero essere viste e riviste… per poi essere pubblicate trasparentemente sul “gazzettino aziendale” o essere parte integrante di un piano di comunicazione ad hoc per la gestione di un cambiamento.

E quando il capofamiglia (il CEO o un C-Level) decide di far entrare un estraneo in casa… dovrebbe darne comunicazione, condividere i “perché” e verificare che tutti i membri siano allineati prima che suoni il campanello…

Il vicolo cieco (#12/2021)

Di Seth Godin  pag. 83  16 Febbraio 2021

La differenza fra non ottenere risultati ed ottenerli è saper evitare i vicoli ciechi

La differenza fra risultati mediocri e risultati eccellenti è invece la capacità di saltare i fossati

Un vicolo cieco è una strada che si sceglie ma i cui risultati dipendono da fattori che non siamo in grado di controllare (o che non sono alla nostra portata).

Abbandonare un vicolo cieco (come quello che imbocca un pesce quando tenta di arrampicarsi su un albero), non è un fallimento morale ma una scelta intelligente.

Un fossato è invece un percorso che richiede un notevole sforzo per essere superato ma che è in linea con ciò che siamo in grado di fare (a patto di aggiungerci una costanza ed una determinazione fuori dalla media).

Chi fa la differenza sa riconoscere i vicoli ciechi (ed evitarli) e soprattutto sa “saltare i fossati”.

Il fossato è quell’ostacolo lungo una strada potenzialmente giusta, che la maggior parte non riesce a superare perché non profonde sufficienti sforzi o abbandona prima del tempo.

Il fossato è ciò che fa la differenza fra un risultato mediocre ed un risultato grandioso:  non è una questione di capacità ma di determinazione e costanza.

“La creazione di una cultura aziendale è un processo evolutivo…”

Patty Mc Cord, dirigente di spicco di Netflix lavorava per un’azienda tradizionale ed accettò la sfida in una realtà innovativa da costruire da zero.

“Non c’era un manuale delle procedure e dovevamo improvvisare costantemente.. dovevamo anticipare i cambiamenti, sviluppare proattivamente nuove strategie e prepararci a metterle in atto”.

Netflix stava attraversando problemi che tutti vorrebbero avere: una crescita oltre le possibilità sia del ristretto gruppo di persone che la componevano, sia dei limiti tecnologici in vigore.

Per fare questo c’era bisogno di sperimentare, dare autonomia alle persone e sviluppare una cultura agile, incentrata su performance di alto livello in grado di fronteggiare le sfide di un cambiamento rapido.

Netflix è una realtà molto particolare ed ogni parallelo con le nostre aziende non avrebbe molto senso…

Ma dalla cultura Netflix si possono prendere spunti notevoli per provare a reinventare business tradizionali, puntando sul fattore umano e facendo un esercizio di astrazione che possa aiutare a superare la mentalità del “abbiamo sempre fatto così”.. per costruire passo passo una cultura ispirata al dinamismo.

Per fare un manager ci vuole un fiore (#11/2021)

Di Niccolò Branca pag. 185

Molti lo conoscono per il “Fernet”.. ma Niccolò Branca è erede di una delle aziende italiane più longeve d’Italia.

L’azienda nasce infatti nel 1845 a Milano e prima di arrivare ai giorni nostri, attraversa tutte le travagliate vicende socio-politiche del nostro paese (in aggiunta alla crisi Argentina dove Branca ha tutt’oggi stabilimenti produttivi).

Gestita a livello familiare, Distilleria fratelli Branca affonda le radici nella tradizione e negli anni si fa portatrice, insieme all’Olivetti, del concetto di “Novare serbando”… preservando l’alta qualità italiana ed introducendo il concetto di “economia della consapevolezza”.

Una economia che privilegia una crescita lenta (concetto ripreso in tempi più recenti da Brunello Cucinelli), con la consapevolezza della necessità di “fare produzione” con equilibrio e rispetto di tutte le parti.

Un approccio olistico molto vicino alla recente introduzione dei concetti di circolarità e sostenibilità…

Quello dell’economia della consapevolezza mantiene il profitto come elemento fondamentale ma ne riassegna il ruolo togliendogli centralità per lasciare spazio ad elementi  quali il che garantiscono  una maggiore longevità alle aziende.. in questo caso dal 1845..

Clubhouse, LinkedIn, personal branding&Co: alcuni ottimi motivi per cui un professionista dovrebbe fare networking professionale..

Clubhouse, LinkedIn&Co: perché un professionista dovrebbe usarli attivamente?!? (ne parliamo su Clubhouse..)

LinkedIn è una piattaforma da 14 milioni di utenti (solo in Italia), ma una minima parte produce contenuti su base regolare.

Clubhouse è una App “vocale” per aprire discussioni su diversi temi e condividere informazioni e prospettive.

Il motivo principale per cui c’è ancora reticenza da parte dei professionisti nell’utilizzare attivamente queste piattaforme (strumenti di networking professionale e personal branding), è riconducibile ad un retaggio legato all’immagine del manager in giacca e cravatta..

Ma il mondo è cambiato..:

1 la nostra carriera non segue più parametri fissi

2 aziende e responsabili hanno cicli di vita sempre più brevi

3 moltissime professioni stanno acquisendo sempre più un carattere temporaneo o “fractional”

4 per affrontare le sfide del futuro è necessaria una contaminazione di conoscenze che deve passare necessariamente dalle nuove tecnologie e dai nuovi modi di fare comunicazione

…il concetto di “immagine professionale” sta cambiando.. e trascurare le nuove tendenze può essere un errore indipendentemente dagli obiettivi che abbiamo…

P.s: se non avete tempo di leggere l’articolo ne parliamo su Clubhouse venerdì alle 17…. link nel primo commento

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Non è escluso che in futuro saremo tutti “freelance”… costretti a curare il nostro “brand” per allargare il nostro orizzonte e fare marketing indipendentemente dagli obiettivi che ci prefissiamo..

Per capire perché non curare il networking ed il personal brand potrebbe essere un errore, è necessario innanzitutto precisare due concetti fondamentali:

1)     il personal branding non è una “mera promozione di se stessi”, ma una rappresentazione della propria immagine (realistica) mirata all’espressione delle proprie caratteristiche con la finalità di condividere esperienze o comunicare valori ed intenti in modo efficace (con o senza l’uso dei social).

2)     il Networking professionale non deve essere frainteso con l’allargamento indiscriminato della propria rete (per avere più follower, contatti o per raggiungere uno scopo individuale di breve termine), ma è di fatto un’attività di “estensione” attiva dei propri confini finalizzata alla condivisione di informazioni ed alla ricerca di nuove conoscenze negli ambiti di proprio interesse.

L’importanza della “comunicazione” è ormai nota da diversi secoli ed è trasversale ad ogni ambito: Networking e personal branding sono solo due nuovi termini per rispolverare alcuni concetti di base sul modo di farla (e LinkedIn o Clubhouse niente altro che nuovi strumenti).

Qui di seguito alcuni motivi per cui imparare ad utilizzare correttamente i nuovi canali comunicativi (facendo del networking e del personal branding una pratica quotidiana) è fondamentale indipendentemente dagli obiettivi che si vogliono perseguire.

1)     Se l’obiettivo è condividere esperienze ed aumentare il network:

per chiunque abbia questo come obiettivo, fare personal branding oggi è l’unico modo per arrivare alle persone a cui ci si rivolge (e per ricercarle all’interno di network virtuali, aumentandone il numero e con esso le occasioni di confronto).

Se non si vuole rimanere nell’ambito del proprio ufficio, scrivere contenuti per attrarre persone dagli stessi interessi è l’unico modo per perseguire questo risultato, facendo leva su una platea enorme di potenziali contatti ed amplificando quindi il proprio “risultato” (che sia quello di avere feedback o quello di potenziare la propria rete di contatti).

Il 90% della comunicazione di oggi passa su social ed internet: non esserci significa rinunciare a canali non più trascurabili.. e rimanere inevitabilmente confinato in spazi fisici che limitano enormemente le proprie possibilità.

2)     Se l’obiettivo è vendere prodotti o servizi:

In un mercato saturo di offerte, le strategie per accaparrarsi un cliente devono crescere di pari passo con le aumentate esigenze del consumatore a cui ci si rivolge.

Il prodotto di qualità non è più un fattore unico di successo: è necessario costruire una strategia di marketing adeguata, acquisire ottime capacità di storytelling e trasmettere i valori con cui quel prodotto viene creato…

Il prodotto non basta più: deve essere un prodotto con dei valori, costruito per essere sostenibile e raccontare la storia delle persone che lavorano a quel progetto/prodotto o servizio…

Chi compra un prodotto o un servizio si affida a dei valori o ad un gruppo di persone: un aspetto non secondario che non può essere più sottovalutato (nemmeno se il vostro prodotto è un “evergreen”)

3)     Se l’obiettivo è scrivere un libro:

per chi vuole scrivere un libro su argomenti su cui ritiene di aver accumulato sufficiente esperienza e conoscenza, il personal branding è un passaggio obbligato…

Molti bravissimi scrittori, prima scrivono un testo e poi si fanno conoscere… col risultato che i volumi di vendita (e l’efficacia del marketing) sono molto ridotti.

Chi vuole vendere un libro o un’esperienza, deve garantire a priori che i contenuti saranno interessanti e che varranno la pena dell’investimento: in un mondo dove l’informazione gira velocissima attraverso canali digitali, per vendere un libro cartaceo non si può prescindere dall’offrire (su piattaforme digitali) anteprime che spingano all’acquisto… le persone che decidono di acquistare un libro cartaceo devono conoscere l’autore e fidarsi di lui…altrimenti chi scrive deve accontentarsi dei parenti o di qualche amico che gli voglia particolarmente bene..

4)     Se l’obiettivo è migliorare la propria comunicazione:

per chi vuole migliorare le proprie competenze comunicative, non c’è altra strada che sottoporsi a test di un pubblico più vasto di quello che risiede nella propria mente o di quello delle quattro pareti di un ufficio: un ambiente globale ha bisogno di confini più estesi di quelli a cui siamo sempre stati abituati.

Quello di utilizzare un ambiente relativamente asettico è ovviamente un rischio ma è un passaggio obbligato per avere un feedback reale e realistico sul proprio piano di comunicazione.

Scrivere articoli aiuta a capire se le tematiche che si trattano hanno un qualche interesse, se le si affronta con la dovuta efficacia e se si è in grado di far arrivare il messaggio relativo a quello che si vuol dire.

Avere dei feedback a 360 gradi espone indubbiamente a rischi… ma se lo scopo è quello di migliorare questa strada non è una scelta ma un passaggio obbligato.

5)     Se l’obiettivo è cambiare ruolo o azienda:

Il passaparola rimane un validissimo strumento e spesso il più usato (ed abusato).

Se si vogliono maggiori possibilità di scelta è fondamentale farsi conoscere ad un pubblico più ampio e fare emergere la propria professionalità e le proprie esperienze cercando di raccontarle al di là del curriculum.

A questo si aggiunge il fatto che sempre più aziende (o manager), sotto la pressione della competitività e di mercati che non consentono più di assumere candidati sbagliati, cercano di scavare a fondo per verificare le reali conoscenze/esperienze di una persona, valutando attitudini a 360 gradi ed analizzando elementi extra-professionali: fare personal branding aiuta i recruiter (o i manager di altre funzioni) a comprendere meglio con chi hanno a che fare… il che previene anche dal rischio di non incappare in lavori poco adatti alle proprie caratteristiche ed ai propri “desiderata”.

6)     Se l’obiettivo è fare carriera:

molti pensano che il vecchio modo di fare carriera sia ancora in auge… credendo sia sufficiente saper accondiscendere al proprio responsabile e possibilmente anche a quello sopra si commette un grave errore.

Questo modello poteva essere valido in un mondo ristretto e relativamente stabile in cui la vita utile di un’azienda era maggiore a quella lavorativa del singolo ed in cui si poteva avere la moderata certezza che un manager rimanesse abbastanza a lungo da poterci accompagnare nella nostra crescita professionale..

Adesso che il turn over del management è molto più elevato, che anche professioni di middle management si avviano verso un concetto fractional (o di “freelance”) e che la vita media di un’azienda si accorcia laddove le nostre carriere lavorative si allungano, i nostri confini non possono più essere “limitanti”.

Da qui la necessità di riuscire a comunicare ben oltre la propria sfera attuale… cercando di far valere la propria immagine al di là dei ruoli e di circostanze che cambiano sempre più rapidamente.

7)     Se l’obiettivo è essere un buon manager (o un buon CEO)

Fino a ieri diventare Manager/CEO era il massimo riconoscimento che si poteva ottenere… un Manager/CEO era all’apice di una scala gerarchica stabile… e poteva permettersi di stare chiuso in quattro stanze e di farsi portare il caffè in ufficio senza vedere nessuno.. manovrando fili con la forza del pensiero e circondandosi di un’aurea misteriosa e celeste.

Oggi non è più così… ed anche i Managers/CEO devono darsi un gran da fare per poter stimolare esigenze sempre più sofisticate di dipendenti che hanno bisogno di comunicazione (per dare il massimo e servire l’azienda al massimo delle proprie potenzialità).

In un mondo moderno il Manager/CEO deve prima di tutto essere “un amministratore di se stesso”, saper comunicare i propri valori (in linea con quelli dell’azienda che guida) e dare direttive anche da remoto..

Il Manager/CEO secondo la concezione moderna è forse la figura che maggiormente deve riuscire a penetrare la cortina di fumo fatta da piramidi ed organigrammi troppo alti… ed arrivare al cuore pulsante di chi è responsabile principale del risultato operativo di un’azienda moderna: i dipendenti.

In un mondo in cui il valore assoluto del proprio operato è comunicare in modo eccellente, non fare personal branding è come rinunciare a parte di una comunicazione efficace: cosa particolarmente rilevante se chi deve farlo è qualcuno i cui risultati dipendono fortemente dal modo di comunicare..

Tanto più vasta è la platea di dipendenti e tanto più è importante fare personal branding, raccontare se stessi e trasmettere quotidianamente la direzione che ogni singolo dipendente deve perseguire… (specialmente in un regime di smartworking e lavoro “da remoto”).

In conclusione..

Qualsiasi sia lo scopo o il ruolo di un professionista, oggi non si può prescindere dal personal branding e da una comunicazione che, per essere efficace, deve correre qualche rischio..

Esporsi, trasmettere valori, mostrare le proprie caratteristiche (inclusi punti di forza e debolezze) non è facile ma sarà sempre più fondamentale per emergere e raggiungere i propri obiettivi indipendentemente dalla loro natura.

E se finora non dire niente era meglio che rischiare di dire qualcosa di “sbagliato”, la società sta andando in una direzione tale per cui se hai qualcosa da dire è bene farlo… perché in futuro chi non dirà niente… sarà davvero perché non ha niente da dire..

“Ho sempre pensato che essere un bravo direttore di azienda significhi lasciare spazio a tutti”

…così fece Nolan Bushnell con Steve Jobs, quando lo assunse in Atari nel 1974.

A 18 anni Jobs era un giovane “brillante, curioso e determinato”, ma anche di difficile gestione: appena entrato in Atari si mise a prendere in giro i propri colleghi, facendosi un sacco di nemici.

In aggiunta emanava un pessimo odore perché seguiva una dieta a base di frutta con la convinzione (evidentemente errata) che prevenisse la formazione dei cattivi odori…

Senza lasciarsi condizionare dalle lamentele dei propri dipendenti, Bushnell ed Al Alcorn (il direttore capo della programmazione) risolsero il problema raddoppiando i turni del reparto ed assegnando a Steve (e solo a lui) il turno di notte…

Quello che sarebbe diventato il fondatore di Apple ebbe così modo di esprimere tutto il suo potenziale… grazie alla capacità di Bushnell di capirne le caratteristiche e valorizzarne le capacità..

Inventa e Sogna (#10/2021)

di Jeff Bezos con prefazione di Walter Isaacson pag. 307 07 Febbraio 2021

Sono le 18:05 del 5 Febbraio 2021 e su una chat del servizio clienti di Amazon, Karen mi chiede: “posso fare qualcos’altro per lei?”

Alle 17:50 avevo ricevuto una notifica sul cellulare (“il tuo pacco è stato consegnato”).

Ero fuori casa eccezionalmente e sono rientrato per le 17:55.

Apro il pacco e scopro che la tastiera che avevo ordinato non era quella che mi aspettavo (era un mio errore)

Mi connetto tramite app alla sezione “i miei ordini” e comincio a fare un “reso” (Amazon accetta resi gratuitamente anche se hai sbagliato a fare un ordine).

La facoltà di restituire con un click è diventata normale ma Amazon ora sconta l’importo del reso da eventuali articoli che poi ti mandano il giorno dopo.

Chiamo per avere notizie e dopo un istante (sono le 18:00) Karen mi informa che quest’ultima opzione è per ora attiva solo per articoli venduti direttamente da Amazon.

“Vuole che le faccia io il reso normale?”

Come si fa a dire di no?

Alle 18:03 Karen mi conferma che un corriere passerà da me entro due giorni, per il ritiro di ciò che ho ordinato per errore..

Mi invia l’etichetta di reso informandomi che nel caso non avessi una stampante è sufficiente che scriva il numero di ordine sulla scatola..

Alle 18:05 Karen mi chiede: ”posso fare altro”?

Se non avessi il sospetto di aver parlato con un “BOT” le invierei una mail di ringraziamento…

Mi limito a dirle “grazie mille, siete fantastici come al solito”.

Questa è la storia dell’azienda più “customer-centrica” del mondo.. un’azienda che fra contraddizioni ed innovazione ha completamente ridisegnato la “customer experience”, quasi monopolizzando il mercato e costringendo tutti ad una difficile rincorsa.

Amazon sta capitalizzato anni in cui è cresciuta lentamente ma progressivamente, investendo sul lungo termine laddove altri prestavano attenzione solo a fatturati e revenue di anno in anno.

Ha inventato il kindle, ridefinito interi settori fermi da decenni e continuando ad innovare per costruire quella fiducia che spinge ad un consumatore a pensare solo ad Amazon..

Spacca sui social (#9/2021)

di Gary Vaynerchuck  pag 236 1 Febbraio 2021

Un libriccino illuminante su come trasformare una passione in un lavoro grazie ai social media.

Il titolo è da spacconi ma mai come in questo caso vale il detto “mai giudicare un prodotto dalla scatola”..

Del resto titoli e contenuti sono in perfetto stile con l’autore: Gary Vaynerchuck è un imprenditore immigrato in USA che ha fatto leva sulla “teatralità” per trasformare le sue idee  in business.

Tutto parte e deve partire ovviamente da due materie prime difficilmente reperibili:

  • Contenuti di alta qualità
  • Perseveranza
  • Faccia tosta (talvolta inclusa nella precendente)

Una lettura interessante anche se datata (il libro è del 2009 e nel frattempo le tendenze “social” sono cambiate).

Rimane comunque un ottimo spunto come l’utilizzo di internet e dei social può far crescere enormemente il nostro brand (e con esso anche il nostro “business”)… alla faccia di investimenti milionari che in pochi (tutt’oggi) possono permettersi.

“Decisi che rispondere alle domande delle verifiche era inutile. Perché se conosci la risposta non vale la pena sprecare il tempo per scriverla, e se invece non la conosci, perché dovresti mostrare tutti in modo lampante quanto sei incompetente?”

Questa frase è stata detta da uno dei più grandi inventori contemporanei: Dean Kamen (considerato uno dei migliori ingegneri elettromeccanici al mondo e spesso paragonato a Thomas Edison ed Henry Ford).

Sconosciuto ai più, è stato protagonista di invenzioni nei settori più diversi: il “Segway” o l’overboard dei nostri figli (a cui non diremo mai che la pensiamo come lui), sono frutto del suo ingegno..

Non ha mai concluso gli studi universitari, aveva voti mediocri ed era spesso in contrasto con i professori visto che non voleva perdere tempo in cose che non gli sarebbero servite…

Ha analoghi più famosi (tra cui Elon Musk) e, scuola a parte, ha costruito la sua fama scartando ciò che riteneva inutile o di scarso valore aggiunto… applicando costantemente la legge di Pareto..

Company Culture (#8/2021)

di Alessandro Rimassa pag. 242 31 Gennaio 2021

La quarta rivoluzione industriale sta spingendo le aziende ad aprirsi, puntando su agilità e velocità e costringendole a cambiare assetto per “ripartire leggeri” e riuscire ad adattarsi ai cambiamenti di rotta.

Investire nell’innovazione, riconoscerla come necessaria ed approcciarla in modo flessibile fa parte di questo processo di evoluzione ed è una delle chiavi per la “digital transformation”.

Puntare sulla condivisione, sull’open source e sullo scambio di informazioni è una necessità stringente che implica una profonda rivisitazione dei rapporti con collaboratori, clienti e competitor.

Attingere da altri campi e sfruttare le conoscenze variegate di un ambiente in cui la diversità viene vista come valore, permette di sfruttare tutto il potenziale delle 4 diverse generazioni che già dai prossimi anni cominceranno a lavorare insieme.

Tutto questo dovrà fare parte della nuova “company culture”, che attraverso trasparenza di azione e comunicazione dovrebbe costituire un “nuovo sistema operativo” per far crescere persone ed aziende.

Come si fa? Prova a spiegarlo Alessandro Rimassa che in questo libro dà qualche qualche istruzione su come premere il pulsante “aggiorna” ed implementare nuova cultura del cambiamento.