Bacia quel ranocchio (#29/2021)

di Christina e Bryan Tracy pag 127 05 Giugno 2021

Cambiare prospettiva non risolve un problema complesso ma contribuisce a cambiare il modo di affrontarlo (aumentando le possibilità di risolverlo).

Per farlo, è necessario:

– interrogarsi sui vecchi schemi

– ridefinire le regole interiori o i processi che non funzionano più

– acquisire un approccio flessibile

Per cambiare visione è necessario cominciare ad accettare quello che esce fuori dal proprio controllo sia nei confronti delle esperienze personali/professionali che nelle relazioni.

Il modo in cui vediamo quello che ci circonda ed i nostri “stakeholders”, determina la qualità dei nostri rapporti, contribuendo ad orientare positivamente o negativamente reazioni ed interazioni (con riflesso diretto su come veniamo percepiti dall’ambiente in cui ci muoviamo).

La teoria è notevole e l’applicazione pratica è come sempre la parte più difficile..

Cambiare la propria prospettiva comporta un profondo lavoro sulle proprie dinamiche ed un’assunzione di responsabilità che non dà né promozioni, nè aumenti di stipendio, né gratificazioni immediate.

Un tema di grande attualità dentro e fuori dalle organizzazioni… specialmente in periodi in cui la complessità crescente richiede un approccio aperto, fondamentale per essere più “agili” ed uscire da schemi consolidati.

Quali sono le “regole” del gioco professionale e come fissarle

Condividere quelle che sono le nostre “regole professionali”, è “la regola” numero uno per il successo di ogni relazione.

Come facciamo affidamento alle regole del gioco degli scacchi ancora prima di “apparecchiare” scacchiera e pedine, così si dovrebbero definire le nostre regole all’interno del contesto lavorativo (con colleghi, responsabili, clienti e collaboratori).

 Le regole servono a stabilire i confini entro cui muoversi e comprendono:

 –        il nostro modo di lavorare
–         le nostre attitudini/capacità
–         i nostri punti di debolezza

 Fissare le regole crea fiducia, riduce le aree grigie e dà all’interlocutore la possibilità di sapere “cosa aspettarsi” (fattore fondamentale per raggiungere la massima efficienza e produttività quando si lavora in team).

Fissare le regole è “la regola” numero uno per il successo di ogni relazione professionale

Come facciamo affidamento alle regole del gioco degli scacchi ancora prima di “apparecchiare” scacchiera e pedine, così si dovrebbero definire le nostre regole all’interno del contesto lavorativo.

Le regole servono a stabilire i confini entro cui muoversi e comprendono:

  • il nostro modo di lavorare
  • le nostre attitudini/capacità
  • i nostri punti di debolezza

Fissare le regole crea fiducia, riduce le aree grigie e dà all’interlocutore la possibilità di sapere “cosa aspettarsi” (fattore fondamentale per raggiungere la massima efficienza e produttività).

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Le “ground rules” sono norme che regolano il nostro comportamento all’interno di una relazione professionale.

 Hanno a che fare con tutti quegli aspetti che riguardano noi come persone ed il nostro modo di lavorare/interagire con un interlocutore.

 Includono preferenze e valori che comprendono sia le nostre attitudini (pregi/difetti, capacità/incapacità), sia ciò che vogliamo da una relazione lavorativa.

Perchè definirle a priori

 Invece di farle scoprire agli altri (magari durante un conflitto che le fa uscire in modo “non professionale”), stabilire a priori quelle che sono “le nostre regole”, aiuta a prevenire eventuali “sorprese” o “false aspettative”, portando TRASPARENZA e gettando le basi per un rapporto basato sulla reciproca fiducia.

 Definire le “ground rules” non è semplice perchè è necessario conoscere a fondo sia il proprio “funzionamento” che quello delle persone con cui si ha a che fare (che siano clienti, collaboratori o diretti responsabili).

 Tuttavia, farlo all’inizio di una relazione porta benefici a se stessi ed agli altri perchè elimina una delle variabili che dà più fastidio in una relazione: l’imprevedibilità..

 Se sono intollerante al lattosio generalmente lo dico al cuoco prima di andare a mensa… sia perchè evito di sentirmi male, sia perchè non metto in imbarazzo lo chef… generando panico ed impreparazione in cucina.

 Esempio a parte, risulta abbastanza intuitivo come le persone accettino meglio le nostre “ground rules” (metodi di lavoro e caratteristiche positive e negative), se sono dichiarate a priori e se possono “prepararsi”.

 Le regole su come siamo e come lavoriamo rappresentano di fatto una “dichiarazione di intenti” e qualcosa su cui ci si prendono delle “responsabilità” (aspetto sociologico piuttosto “potente” nella percezione di chi sta di fronte).

 Se voi foste un cliente, un responsabile o un dipendente, non vorreste sapere le “ground rules” per potervi muovere con maggiore serenità all’interno del vostro contesto e quindi performare meglio?!?

Con chi definirle

 La maggior parte delle situazioni di conflitto, deriva come detto dalla mancanza di trasparenza e dalla scarsa prevedibilità (entrambi fattori che creano fraintendimenti e quindi inefficienza, entropia e mal di pancia).

 Per questo motivo, è opportuno definire le “ground rules”:

  •  Con i propri responsabili
  • Con i propri clienti
  • Con i propri collaboratori

 Chi ha una certa seniority e delle caratteristiche ben precise, ha un proprio modo di lavorare e dei “pregi e difetti” che dovrebbero essergli noti e che dovrebbe essere in grado di comunicare per rendere il rapporto con l’altro più fluido e produttivo (qualsiasi sia “l’altro”).

Come si definiscono?

 Attraverso un dialogo trasparente all’inizio della relazione.

 Può essere fatto con una mail di presentazione o tramite una chiacchierata informale al caffè (scelta consigliata).

 Qualsiasi altra modalità interattiva è preferibile purchè sia all’inizio della relazione e sia finalizzata a gettare le basi per una consapevolezza reciproca.

Conclusioni

 Definire le ground rules presuppone:

 –         Self awareness (le regole vanno chiarite prima di tutto a se stessi)

–         Intelligenza emotive/contestuale (per comunicarle efficacemente senza imporsi)

–         Capacità di andare oltre i propri limiti (per creare uno spazio di interazione, discussione e condivisione nel caso sia necessario approfondire alcuni aspetti)

 Definire le proprie regole (e lasciare agli altri la possibilità di definire le proprie), porta relazioni più genuine, ambienti più rilassati e risultati più efficienti.

E’ una questione di logica operativa che parte da una profonda conoscenza di come funzionano le dinamiche dell’essere umano (ancestralmente soggetto alla paura dell’ignoto e poco propenso a digerire cambiamenti improvvisi o notizie/comportamenti inattesi).

 Schedulare una sessione col proprio capo e con i propri collaboratori (nonchè far emergere le proprie “ground rules” all’inizio di una negoziazione con un cliente) è un ottimo modo per partire col piede giusto.

 E come è noto, “chi ben comincia è a metà dell’opera”.. 

Impatto (#28/2021)

Di Sujith Ravindran e Fabio Salvadori pag. 182 01 Giugno 2021

“I tempi sono maturi per umanizzare l’innovazione e per rivoluzionare l’approccio partendo dal centro della persona”.

“L’innovazione per molti aspetti sembra essere arrivata ad un punto morto perchè continuiamo a cercare nei posti sbagliati quelle idee che possono cambiare il nostro destino personale, organizzativo e collettivo”.

Nelle aziende cerchiamo risposte nelle sale riunioni, negli “incubatori” o nell’offerta di consulenti ed esperti che però hanno come naturale priorità quella di fatturare..

Cerchiamo risposte dall’esterno verso l’interno.. come se le idee che “fanno la differenza” potessero piombare dall’alto anzichè arrivare da un processo più profondo che parte dai “perchè” e dalle esigenze dei singoli membri di un’organizzazione.

In questo libro Fabio Salvadori dà un approccio che attinge dalla “scienza indiana della consapevolezza” per elaborare ipotesi sul processo di funzionamento che porta alle “grandi idee”.

Una trattazione che trova un interessante parallelo con umanesimo e rinascimento in cui l’esplosione dell’innovazione in tutti i campi fu connessa alla creazione di un ambiente sano in cui l’elevazione del proprio scopo fu fondamentale per l’eccellenza in molti settori scientifici ed umanistici. 

La prima regola del change management..

Recentemente, in una sessione aperta di domande a cui rispondeva uno dei più importanti Vice President dell’azienda, molte persone continuavano a fare domande tecniche su prodotti, processi e procedure..

Come se:

– tutto fosse rimasto cristallizzato a due anni fa (quando peraltro certe domande cominciavano ad essere già “obsolete”);

– non ci fosse stato un impatto enorme sulla nostra quotidianità;

– fossimo ancora “in presenza” (e non a guardare uno schermo LCD come automi…);

– non ci fosse la necessità di avere risposte a domande più “umane”;

Qualcuno, nonostante l’asetticità di centinaia di schermi a sostituire l’auditorium, deve essersi improvvisamente svegliato facendo una domanda semplice..

“E tu caro VP come ti senti? Cosa ne pensi di questa situazione? Hai qualche consiglio o riferimento ai nostri valori per consentirci di rimanere veramente “connessi” e continuare a lavorare come un team in questi tempi senza precedenti?

Il VP ha visibilmente mostrato un sorriso sincero dietro la maschera di ferro data normalmente in dotazione col ruolo.

Poi ha usato più di metà del suo tempo per rispondere brillantemente a questa sola domanda..

“Se vuoi fare qualcosa di nuovo devi smettere di fare qualcosa di vecchio”… (l’aforisma è di Peter Drucker… probabilmente liberamente estratto dal ben più celebre di Albert Einstein)

Momenti che contano (#27/2021)

di Chip e Dan Heat pag. 239 23 Maggio 2021

Quando è che un evento genera un impatto significativo individualmente o all’interno di un team?

Come professionisti e come persone, ognuno di noi vive delle “esperienze che incidono in modo straordinario” sulla propria vita.

Queste occupano una parte importante della nostra memoria (il primo progetto consegnato, la nascita di un figlio, una competizione vinta, un viaggio indimenticabile o un’impresa di gruppo).

Apparentemente lontane tra loro, tutte hanno in comune uno o più di questi elementi:

  • Elevazione (picchi adrenalinici o  “scostamenti dalla routine” che introducono qualcosa di “inaspettato”)
  • Intuizione (momenti in cui si cambia prospettiva o il proprio modo di vedere le cose)
  • Orgoglio (momenti in cui mostriamo coraggio o in cui vinciamo delle sfide)
  • Connessione (momenti che danno un senso di appartenenza e di identità)

Sono tutti “ingredienti” che una volta noti, possono essere creati ed inseriti nei nostri contesti personali e professionali per “fare la differenza” e rendere significativo quello che facciamo, contribuendo al raggiungimento di quello stato dell’esperienza ottimale fondamentale per l’aumento di produttività e performance.

A chi dare un feedback…

Chi gestisce un gruppo di persone ha spesso difficoltà a strutturare un feedback..

Pensando di dover far crescere tutti (cosa parzialmente corretta), le organizzazioni pensano spesso che i feedback debbano essere distribuiti a pioggia studiando bene le modalità per essere efficaci indipendentemente dagli interlocutori..

Ma è davvero necessario/efficace dare un feedback a tutti?!?

Una persona restia a cambiare idea, inchiodata sulle proprie posizioni e professionalmente apatico difficilmente percepirà il feedback in maniera positiva (indipendentemente da chi e da come glielo dà).

Una persona professionalmente ricettiva invece molto probabilmente prenderà il feedback come occasione di miglioramento

Applicare l’80/20 anche per dare feedback dove serve salva tempo ed energie..

Questo non vuol dire lasciare indietro qualcuno ma lasciare indietro solo chi vuole essere lasciato indietro..

D’altronde “se dai un feedback ad una persona poco capace è probabile che questa possa prenderti per pazzo… se dai un feedback ad una persona intelligente è invece assai probabile che questa possa prenderti per saggio..” (come sempre è una questione di “prospettive”)

Dare feedback è un processo già difficile di per sé… farlo con chi non ha la minima intenzione di migliorare potrebbe essere una perdita di tempo..

Employability 2.0

La citazione “rivisitata” proviene da un celebre aforisma dello scrittore George Bernard Shaw che diceva che “l’uomo non smette di giocare perché invecchia ma invecchia perché smette di giocare”

In campo professionale, cambiando una sola parola, l’aforisma mantiene tutta la sua efficacia in relazione a celebri professionisti che hanno continuato ad imparare fino alla morte (e che “non sono mai invecchiati”)

A tal proposito, celebre fu la frase di Michelangelo che ad 87 anni disse “Io sto ancora imparando..”

Come nel caso del gioco, anche l’atto di continuare ad imparare è una questione di scelte personali.

Scegliere deliberatamente di investire nella propria formazione per tutto il corso della vita è qualcosa che garantisce quella che si definisce “employability” ovvero la nostra capacità come professionisti di rimanere a lungo sul mercato e di essere ancora competitivi (se non come Michelangelo… almeno avvicinandoci un pò..)

Da tabù ad acceleratore di performance: perché ironia e leggerezza possono aumentare i risultati.. (se usati con cautela)

Quanti ambienti di lavoro creano contesti facili per una risata o lasciano spazio all’ironia?

Pochi..

Eppure tutti provano gioia nel condividere un momento ironico e tutti identificano l’ironia come un elemento aggregante..

Ma l’ambiente di lavoro non è strutturato per contemplare leggerezza e risate perchè fin dal secolo scorso c’è stata una separazione concettuale fra questo ambiente (serioso e legato ad un concetto di “sangue, sudore e lacrime”) e quello della vita privata (più rilassato).

Eppure la massima efficienza nel lavoro si ottiene solo quando siamo circondati da un ambiente dinamico e di relazioni positive, dove l’ironia può essere un elemento determinante non solo all’interno di un team di lavoro ma anche in contesti di negoziazioni importanti con clienti ostici.

Ma l’ironia è un’arma a doppio taglio… e come una spezia, per essere efficace, va dosata molto accuratamente…

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L’approccio verso l’utilizzo di un po’ di sana ironia in un ambiente professionale può essere paragonato all’idea di presentarsi in ufficio in tuta: la stragrande maggioranza è favorevole (non fosse altro perché felpa e sneakers sono più comodi di un gessato), ma nessuno lo fa…

A volte si scambia erroneamente l’ironia per qualcosa non necessariamente funzionale ad una prestazione professionale ma questo retaggio di un’epoca ormai lontana, non è altro che uno dei tanti risvolti di una “tendenza all’inquadramento” tipica delle organizzazioni del secolo scorso.

Visto che le cose stanno “leggermente” cambiando (da un concetto di “omologazione” si sta progressivamente passando a concetti in cui si celebrano diversità e caratteristiche peculiari), è forse il momento di guardare all’ironia con un’altra luce, considerandola come un elemento che può sbloccare situazioni estremamente difficili, rilassando l’ambiente e creando le premesse per prestazioni fuori dall’ordinario…

C’è però un “ma”: l’ironia è una caratteristica molto sofisticata il cui buon utilizzo sottende (soft) skills molto sviluppate che passano dalla capacità di ascolto, alla profonda conoscenza di se stessi e degli altri… fino ad arrivare all’esatta percezione delle vibrazioni che intercorrono fra le persone all’interno di un gruppo o di una sala riunioni.

Insomma, essere ironici o spiritosi in un ambiente in cui la serietà regna sovrana non è cosa da tutti… ma chi ha questa caratteristica naturale e riesce ad utilizzarla in base al contesto può essere in grado di “fare la differenza”…

Perché l’ironia

L’ironia è un elemento aggregante… come parlare di cibo o di calcio rappresenta una sorta di linguaggio universale che riesce ad aggregare una moltitudine di persone di estrazione diversa.

E’ un collante naturale che assolve funzioni più disparate creando:

UNIFORMITA’ DI INTENTI: riunendo attorno allo stesso tavolo persone e posizioni apparentemente inconciliabili.

SENSO DI APPARTENENZA: fornendo agli stakeholders uno spazio sicuro in cui le persone possono riconoscersi come parte di un “gruppo” e non come essere entità singole che sono lì solo per “performare”

FIDUCIA: creando quella connessione che è costruita in un ambiente gerarchico ma che va al di là della sfera professionale

CAMBIO DI PROSPETTIVA: riuscendo a riportare una discussione da una guerra di posizioni ad uno “scambio” su interessi reciproci (elemento alla base di qualsiasi negoziazione efficace)

EFFETTO “WOW”: introducendo un elemento inaspettato che spezza la routine ed alza le aspettative di chi è coinvolto

Le persone ironiche hanno un effetto dirompente in tutte le dinamiche aziendali:

·      Con i colleghi sono persone che “hanno sempre qualcosa da raccontare” e con cui tutti vogliono condividere la pausa caffè: sono aggregatori naturalmente inclusivi, dalla battuta pronta e dall’”acumen” sviluppato.

·      Con i propri manager sono in grado di muoversi agilmente intorno ai limiti di una relazione gerarchica, mantenendo le proprie idee ma godendo al tempo stesso di estrema fiducia (talvolta irriverenti, altre volte allineati.. ma sempre nel rispetto dei propri valori).

·      Con i clienti sono assertivi: professionali quando serve ma anche in grado di inserire elementi di “disruption” nella relazione (sbloccando situazioni di tensione e consentendo la conclusione di negoziazioni particolarmente complicate).

Conclusione

L’ironia è una specie di “collante naturale” che può essere utilizzato efficacemente in qualsiasi contesto perché qualsiasi contesto che presuppone relazioni ha bisogno sempre di tre cose:

  1. -relazioni positive
  2. – Sicurezza/Fiducia
  3. -Dinamicità

L’ironia crea connessione, genera empatia (non entropia) e un effetto “wow” che se ben calibrato introduce un elemento inaspettato e di assoluta novità in un ambiente tendenzialmente routinario.

Come tutte le cose etichettate come “poco opportune” in determinati contesti, l’ironia va usata con cautela: presuppone una grande conoscenza di se stessi ma anche del contesto e degli ambienti in cui ci si muove (perché deve tenere conto dei vincoli culturali e delle caratteristiche di ogni persona).

Usata in contesti complessi è un qualcosa che presuppone elevate capacità personali ma che rende risultati incredibili (un parallelo interessante è l’effetto con cui “La vita è bella” è riuscita a raccontare uno degli eventi più drammatici della storia… cosa che dà enormi speranze a tutti su come si possono gestire negoziazioni complesse divertendosi..)

Come per realizzare un film sull’olocausto è necessaria tutta l’intelligenza di un attore/regista da premio oscar, per ricorrere all’ironia in contesti aziendali ci vuole una grande intelligenza emotiva, senso del contesto e caratteristiche intellettuali elevate (per capire la linea sottile che unisce tutti gli stakeholder della stanza e che li rende tutti uguali… con una risata..).

Un esempio efficace di come l’ironia fa crescere un business..

Aziende famosissime hanno creato un brand (e “vinto sul mercato”) grazie all’ironia.

Di seguito qualche esempio di come “Southwest airlines” ha sostituito i noiossissimi “annunci sulla sicurezza” in messaggi “cult” che sono diventati elementi di differenziazione fondamentali per il brand:

  • “Signori e signori in questo velivolo è vietato fumare: se volete fumare la zona riservata ai fumatori è sull’ala… e se riuscite ad accendere le sigarette, potete fumarle”..
  • “I salvagenti sono sotto il sedile: se doveste utilizzarli in caso di ammaraggio, potete tenerli…”
  • “prima di indossare la maschera ad ossigeno, potete farla indossare a vostro figlio: se viaggiate con più di un figlio iniziate con quello che ha più potenziale o che è meno incline a mettervi in una casa di riposo”

Da una ricerca postuma, Southwest ha rilevato che quando i clienti fedeli sentivano un annuncio di sicurezza divertente, l’anno dopo facevano mediamente “mezzo volo” in più dei clienti che non l’avevano sentito… con un ricavo conseguente pari al valore di acquisto di due nuovi Boeing 737 (all’anno!).

E’ un ROI (ritorno dell’investimento) stratosferico… (visto che l’investimento è zero..)

P.s: Non tutti sono creativi, originali ed in gamba come Southwest airlines… ma l’azienda stessa è un ottimo esempio come acumen, ironia ed un modo diverso di vedere le cose (introducendo elementi inaspettati in contesti classici) possono fare realmente la differenza…

Flow (#26/2021)

di Mihàly Csìkszentmihalyi pag. 447 16 Maggio 2021

Lo stato di flow è il desiderio di qualsiasi persona o professionista: quella condizione piacevole di concentrazione che prelude a prestazioni eccezionali e che rende indietro il massimo grado di soddisfazione.

E’ quel particolare stato psico-fisico in cui una persona è talmente concentrata su quello che fa da perdere il senso del tempo, dello spazio e della “fatica”.

Lo stato di flow si raggiunge quando:

– quello che si fa è commisurato alle proprie capacità (sfidando i propri limiti)

–  ci si focalizza su ciò che è significativo per se stessi

– si riesce a fare “ordine interiore”

Si può raggiungere il flow attraverso attività ed obiettivi pragmatici (come diventare direttore d’azienda o affrontare sfide concrete) o perseguendo scopi più legati all’aspetto dell’essere.

Sebbene possano esserci attività pratiche che richiedono una concentrazione tale da poter rendere la sensazione di flow per un tempo sufficientemente ampio (anche una vita), generalmente uno stato di flow permanente può essere raggiunto solo se si dà un significato più profondo alla propria esistenza, ricercando un ordine interiore indipendente dalle attività che si svolgono ma dipendenti dal come si decide di svolgerle..

Fai di te stesso un brand (#25/2021)

Di Riccardo Scandellari pag. 215

“Essere un brand significa occupare uno spazio nella mente di chi osserva”

Un brand si materializza in una struttura mentale di informazioni rilevanti: se pensiamo ad una bevanda fresca, ad uno smartphone o ad un qualsiasi prodotto viene alla mente un’immagine ben precisa.

Se si trasferisce il concetto da un prodotto ad un professionista, le regole per diventare un brand non cambiano: per essere un brand è necessario avere un “perché” chiaro e rivolgersi ad un pubblico per il quale essere “rilevanti”).

Per diventare un brand è necessario:

  • Riconoscere i propri tratti caratteristici
  • Individuare chirurgicamente il proprio pubblico
  • Comunicare efficacemente competenza, stile e peculiarità

In un mondo in cui freelence e fractional manager sono in aumento (ed in cui flessibilità, adattabilità e differenziazione sono parametri sempre più importanti), individuare e comunicare la propria unicità e le proprie caratteristiche è una competenza che serve a generare un “brand che non teme concorrenza”.

Perché fare di se stessi un brand?

Perché fare branding efficacemente vuol dire trasformare un CV come tanti in un professionista che genera aspettativa e fiducia… o indurre un cliente o un’azienda a cercare te e non il viceversa…