Perché avere una posizione di leadership, non fa di te un leader…


Contrariamente al pensiero comune, la leadership non è un’etichetta che può essere assegnata da un’azienda.

La leadership rappresenta il frutto di quello che sei, di quello che fai ma soprattutto di come porti “quello che sei” in quello che fai.

L’azienda può anche assegnarti una posizione ma solo le persone con cui hai a che fare possono riconoscerti una posizione di leadership (generalmente in base a “chi” diventano dopo aver lavorato con te).

Non è frutto di un titolo o di uno status e non si può comprare come una certificazione o un corso di formazione (rendendo abbastanza inutile fare lunghi training sull’argomento).

È leadership la capacità di far muovere le persone attorno a te e di portare valore, umanità, coerenza ed energia all’interno degli ambienti e del gruppo in cui lavori.

Manager se ne vedono a centinaia.. ma i leader sono quelli che “fanno accadere le cose” e che sono in grado di “accendere le persone” sia de visu che da remoto (con buona pace dei sostenitori del “rientro in ufficio”).

Chi ne ha mai incontrato uno, sa che un leader lo riconosci all’istante senza aver bisogno di leggere post sulla leadership o senza aver bisogno che qualcuno dall’alto lo abbia designato come “leader”.

Il resto è “narrativa”…

#leadership#labels#people

Leonardo Del Vecchio (#34/2022)

Di Tommaso Ebhardt pag. 315 1 Luglio 2022

La storia di Del Vecchio la conosciamo già nonostante il suo “profilo basso”: orfano di padre, ha iniziato come operario ed in poche decine di anni ha scalato Wall street creando un impero.

L’azienda è una sua creatura, tirata su con fatica e sudore come nelle migliori “storie di successo” dei grandi imprenditori.

“la differenza fra me e molti di quegli imprenditori partiti con me? Loro si sentivano arrivati quando si sono potuti permettere l’appartamento al mare, io non mi sono mai stancato di andare avanti”.

Leonardo, è scritto nella sua biografia, mette sempre l’azienda davanti a tutto, anche alla propria famiglia.

Vuole lavorare con i migliori, ha un atteggiamento duro ma anche di profondo rispetto per le proprie maestranze: è un precursore del welfare aziendale ma contemporaneamente rivela a più riprese il suo stile imprenditoriale: “gli accordi con i lavoratori sono scritti sul marmo: io vi do tutto, voi mi date tutto”.

Tra visionario e tradizionalista, era garzone e presidente: aggiustava le montature ma stringeva accordi internazionali.

Aveva un ossessione per il controllo: “seguo ogni giorno l’andamento delle vendite dei nostri 1500 rappresentanti. Nel fine settimana guardo proprio tutti i numeri”.

Veniva dal nulla e forse proprio per questo viveva nella costante tensione che potessero portargli via tutto  e distruggere “la sua fabbrica”: “Quello che non prendi tu lo prendono gli altri, non bisogna far crescere potenziali concorrenti”

Una storia di eccezionale determinazione e di sforzi sovrumani per salire sul tetto del mondo a tutti i costi…. Ma anche una storia di solitudine e mancanze profonde che probabilmente affondano le radici nella sua infanzia.

Oggi Del Vecchio viene giustamente celebrato per quello che ha saputo costruire, per la cura nei confronti delle sue persone e per la sua tenacia.

Ma nella sua biografia scritta da Tommaso Ebhardt, non sfuggono diversi passaggi che da una parte celebrano una visione “super eroica” di Del Vecchio ma che dall’altra gettano una luce chiara su come certi percorsi non lascino spazio a compromessi… facendo perdere pezzi importanti della vita di una persona.

Non ci sono mezze misure ed il successo si paga a caro prezzo.

Un uomo intelligente come Del Vecchio lo sapeva ed in chiusura al libro, dopo aver descritto la scalata supersonica di Luxottica, l’imprenditore dice: “Ho un solo vero rammarico. Ho pensato prima di tutto al lavoro. Io non ho mai avuto una famiglia. Non ho mai avuto un padre. Solo adesso mi rendo conto che dedicando tutto  me stesso, alla fabbrica, a miei collaboratori, ho passato poco tempo con i miei figli. Ecco il mio unico cruccio”.

Muore ad 87 anni, ancora in sella a quella creatura che gli ha dato molto ma che gli ha anche tolto molto.

Amministratori delegati o pirati?!?

Nel 2021 alcuni CEO hanno guadagnato mediamente 670 volte lo stipendio di un loro dipendente (con punte di 1965 nel caso del CEO di Estèe Lauder che ha guadagnato circa 66M€ in un anno.. fonte Forbes)

I capitani dei pirati, da sempre considerati “ribelli depredatori senza scrupoli”, spartivano il loro bottino trattenendo per sé una parte non troppo superiore a quella che prendeva l’ultimo dei propri mozzi (si può discutere sull’origine “etica” dei proventi ma allora dovremmo farlo anche in relazione alle società “profit”..).

Noi vediamo i pirati con sospetto e celebriamo i CEO multimilionari perché ci vengono riproposti tutti i giorni come modelli.

La cosa positiva è che possiamo ragionevolmente supporre che oltre ad essere bravi ad aumentare la capitalizzazione della propria azienda, CEO che guadagnano 1965 volte un comune mortale siano persone illuminate e impegnate a creare un mondo più “sostenibile” (cosa che sicuramente non facevano i pirati..).

..d’altronde non può che essere così essendo la sostenibilità al primo posto dell’agenda globale..

La tirannia del merito (#33/2022)

di Michael J. Sandel pag. 282 29 Giugno 2022

Ci sono amministratori delegati che guadagnano fino a 2000 volte un dipendente medio..

La società meritocratica li chiama “vincenti” e li celebra come se questo fosse frutto esclusivo di un talento (dando per scontato che avendo tutti le stesse possibilità, la misura del nostro stipendio faccia di noi dei vincenti o dei perdenti).

Una riflessione che ci dovrebbe sollevare dandoci una percezione più “oggettiva” della realtà, è che chi sta sulle copertine di Forbes è lì per una serie di circostanze che talvolta hanno poco a che vedere con le loro reali capacità.

Questa considerazione, può essere estesa anche a tutti coloro che semplicemente sono nati dalla parte fortunata del globo e che appartengono al 5% della popolazione che vive decorosamente (compresi quelli che leggono libri davanti ad un piatto di alici ed un bicchiere di vino).

La meritocrazia è ancora un illusione e anche se sono stati fatti grossi passi in avanti che hanno portato dal “capitalismo ereditario” ad una società che teoricamente mette tutti sullo stesso livello, la possibilità di “arrivare” e il punto di partenza non sono gli stessi per chi frequenta college prestigiosi o chi frequenta università “normali” (già un’utopia per gran parte della popolazione mondiale).

La “tirannia del merito”, traccia la storia di come si è evoluta la meritocrazia… portando a modelli che negli anni hanno instillato a tutti la convinzione di “potercela fare” puntando esclusivamente sulle proprie capacità: modelli lontani della realtà che stanno continuando a costruire società in cui se non riesci a diventare un CEO che guadagna 1000 volte un comune normale, non sei stato abbastanza bravo, abbastanza scaltro o abbastanza intelligente…

Un’analisi lucida e molto attuale su un fenomeno (quello dell’ideale meritocratico), che ha creato qualche manciata di CEO milionari e svariati milioni di frustrati.

Un libro che spiega perché siamo in una società di “vincitori e di perdenti” senza diritto di replica.

3 motivi per cui la maggior parte dei fuoriclasse abbandonano le aziende..

I fuoriclasse sono persone dotate di capacità e competenze che hanno la spinta per non accontentarsi.

Non si accontentano delle spiegazioni posticce su quello che dovrebbero fare e su come dovrebbero farlo (dato un obiettivo vogliono poter trovare e sperimentare la strada a modo loro);

Non si accontentano di allinearsi allo status quo o di accettare il dogma “abbiamo sempre fatto così” (se questo “dogma” porta a a fare le cose nel doppio del tempo);

Non si accontentano dell’inerzia dei processi decisionali e del fatto che un’idea brillante debba “spengersi” nel lungo processo di approvazione di una catena decisionale infinita (anziché spengersi perché messa “alla prova dai fatti”).

Adesso i fuoriclasse non si accontentano più neanche di dover lavorare un fisso di 8 ore al giorno (vogliono poterne lavorare 2 o 16 a seconda di quello che gli dicono talento e competenze in base a obiettivi che conoscono bene e che non hanno bisogno di essere “imposti” o “indicati dall’alto”).

Per questo le aziende migliori aprono allo smartworking, responsabilizzano le proprie risorse lasciandole libere di sperimentare, fallire e riprovare… facendo in modo che il proprio organigramma sia aperto e scalabile da chiunque abbia “una buona idea” da mettere alla prova…

Fanno questo non perchè “virtuose” ma perchè così facendo garantiscono alle idee migliori di emergere… facendo in modo che i talenti che hanno a disposizione vengano fuori senza perdersi nei labirinti organizzativi e senza sbattere in muri impenetrabili di inefficienza.

Puntare a diventare un’azienda con queste caratteristiche non è più una chimera ma una necessità… perché superata l’inerzia, talenti o fuoriclasse prima o poi si licenziano: è solo questione di tempo…

Community (#32/2022)

di Peter Block pag. 205 25 Giugno 2022

di Peter Block pag. 205 25 Giugno 2022

In un’epoca segnata da frammentazione e distanza forzata, organizzazioni di qualsiasi tipo si trovano davanti a scelte esistenziali che spingono verso la necessità di una “connessione” reale e di un profondo senso di appartenenza.

Di fronte ad eventi imprevedibili e alla consapevolezza che il singolo non può più fare la differenza (semmai sia mai stato in grado di farla escluso che per se stesso), è sempre più importante sentirsi parte di un tutto e non avere il peso della solitudine e delle aspettative della società.

Queste necessità trovano delle risposte in una forma che da secoli ha aiutato l’uomo a sopravvivere e ad evolversi costantemente fino a dominare il pianeta: la comunità.

Spesso abbiamo un concetto distorto di comunità: un insieme di pregiudizi e stereotipi che ci allontana dal suo vero significato e che ci ha spinto nel corso del tempo verso i modelli individualistici tipici del capitalismo e di buona parte del modus operandi delle nostre aziende.

La comunità non è una famiglia ma un insieme di persone che collaborano per uno scopo comune e che si completano portando valore per quelle che sono le caratteristiche che li distinguono.

Il passaggio da mindset individuale a mindset di comunità prevede un abbattimento dei pregiudizi con i quali la maggior parte delle generazioni sono cresciute.

Diventare una comunità, pertanto, non è solo possibile ma anche estremamente vantaggioso: quando si riesce a costruire una squadra in cui i leader assumono ruoli di facilitazione e di servizio al gruppo, i membri del gruppo stesso abbandonano il proprio ego, si mettono a servizio di uno scopo superiore e si “incastrano” fra loro nella maniera migliore possibile.

Questo produce sistemi efficienti e produttivi in grado, non solo di sopravvivere, ma di guidare l’evoluzione di una specie altrimenti condannata a essere sopraffatta dalle macchine.

Perchè cultura e comportamento battono numeri e performance

Siamo sempre stati abituati a “misurare” numeri e performance… prima di tutto perchè sono le metriche “più” facili da acquisire… e poi perchè fino a qualche tempo fa venivano ritenute le più “significative”.

Adesso stiamo piano piano comprendendo i limiti della misura delle sole performance… e del fatto che spingendo troppo sull’acceleratore poi si pagano costi enormi per turn over e “grandi dimissioni”.

Anche se non riusciamo ancora “misurarlo” come la vecchia logica ci imporrebbe di fare, stiamo assimilando il fatto che se si vogliono aziende o gruppi di lavoro che producono risulti di impatto (generando come sottoprodotto un sacco di profitti), è necessario fare attenzione non solo ai risultati operativi ma anche alla cultura ed i comportamenti guida delle persone.

Perchè?

Perchè le aziende che battono le concorrenti per cultura e comportamento, le battono anche sul fronte dei numeri e delle performance (ce lo dice l’intuito ma anche molte delle aziende più innovative oltreoceano).

Ma come si fa a misurare la cultura di un’organizzazione per capire se è sana o meno?

Non ci sono risposte univoche ma un buon modo può essere quello di legare i risultati anche al modo con cui si raggiungono…verificando che ci sia sempre allineamento fra quello che si fa ed il come si dice di volerlo fare…. (si chiama coerenza… non sempre è “misurabile” ma è quasi sempre facilmente percepibile”).

Misurando il grado di apertura ad un confronto fra livelli diversi di un organizzazione, la possibilità di contraddire un superiore, di accedere all’ufficio dell’amministratore delegato o la capacità delle persone di collaborare fra loro con un senso comune di obiettivo.

non ci sono indicatori numerici particolari (anche se con un po’ di fantasia si potrebbero trovare).. ma chi vive all’interno di un’azienda sa istintivamente se e quanto questa è coerente con una cultura sana… deducendone di conseguenza quanto questa abbia chance di sopravvivenza a medio-lungo termine.

3 motivi per cui la maggior parte dei fuoriclasse abbandonano le aziende..

I fuoriclasse sono persone dotate di capacità e competenze che hanno la spinta per non accontentarsi.

Non si accontentano delle spiegazioni posticce su quello che dovrebbero fare e su come dovrebbero farlo (dato un obiettivo vogliono poter trovare e sperimentare la strada a modo loro);

Non si accontentano di allinearsi allo status quo o di accettare il dogma “abbiamo sempre fatto così” (se questo “dogma” porta a a fare le cose nel doppio del tempo);

Non si accontentano dell’inerzia dei processi decisionali e del fatto che un’idea brillante debba “spengersi” nel lungo processo di approvazione di una catena decisionale infinita (anziché spengersi perché messa “alla prova dai fatti”).

Adesso i fuoriclasse non si accontentano più neanche di dover lavorare un fisso di 8 ore al giorno (vogliono poterne lavorare 2 o 16 a seconda di quello che gli dicono talento e competenze in base a obiettivi che conoscono bene e che non hanno bisogno di essere “imposti” o “indicati dall’alto”).

Per questo le aziende migliori aprono allo smartworking, responsabilizzano le proprie risorse lasciandole libere di sperimentare, fallire e riprovare… facendo in modo che il proprio organigramma sia aperto e scalabile da chiunque abbia “una buona idea” da mettere alla prova…

Fanno questo non perchè “virtuose” ma perchè così facendo garantiscono alle idee migliori di emergere… facendo in modo che i talenti che hanno a disposizione vengano fuori senza perdersi nei labirinti organizzativi e senza sbattere in muri impenetrabili di inefficienza.

Puntare a diventare un’azienda con queste caratteristiche non è più una chimera ma una necessità… perché superata l’inerzia, talenti o fuoriclasse prima o poi si licenziano: è solo questione di tempo…

Business Model you (#31/2022)

di Tim Clark pag. 258 24 Giugno 2022

Reinventare la propria carriera è un argomento rilevante in clima di “grandi dimissioni”…

Ma come si fa? Da dove partire?

La maggior parte delle start up moderne, prima di nascere e portare innovazione in nuovi settori, partono da un “canvas model”: un modello di gestione strategica utilizzato per sviluppare nuovi modelli di business (o revisionare quelli esistenti).

“Business model you” parte dallo stesso concetto, proponendosi come una guida per la gestione del cambiamento: aiutando ad identificare e valorizzare i propri punti di forza e spingendo al rafforzamento di quelli di debolezza.

Attraverso un percorso guidato, in analogia a quanto fanno le organizzazioni documentando il proprio scopo, il proprio “core business” e la propria mission, il libro guida alla stesura del proprio “modello”, partendo dalla descrizione delle proprie caratteristiche, dalla riflessione su aspirazioni personali e di carriera, dall’identificazione del cliente tipo e del tipo di servizi da erogare (ivi incluse attività, partner e risorse chiave,  valore offerto, relazioni, canali e ricavi).

Un ottimo punto di partenza che fa riflettere sulla propria “value proposition” (proposta di valore) per riuscire ad identificare possibili direzioni finalizzate a reinventarsi, cambiare professione o aprire nuove fonti di reddito..

Il problema è che..

Il problema non è che non sanno quanto siete bravi..

Il problema non sono neanche le competenze che non avete e che cercate di colmare con titoli, master, esperienze e formazione.

…Il problema vero è che nella maggior parte dei casi non sanno (o non possono) mettervi in posizioni in cui potete fare la differenza.

L’unica soluzione non è cercare un lavoro: è capire quale è il posto giusto e cercare qualcuno in grado di mettervici.

tutto il resto serve ed è utilissimo… ma è solo un compendio