Il passaggio da professionista a team leader: 4 errori classici della transizione..

Quando una persona viene promossa alla guida di un gruppo di persone ci sono 4 errori tipici che si commettono (in realtà se ne commettono molti di più ma questi sono i principali..):

1)     Risolvere anzichè delegare (alias continuare a fare “micromanagement”): spesso le persone vengono promosse a capo di altre perchè instancabili lavoratori e “problem fixers”…. ma ciò che è stato valido come professionista non lo è quando diventi un manager di persone e l’abitudine di “fissare” i problemi è deleteria per la crescita delle persone che si gestiscono (e per se stessi).

Cosa dovrebbe fare?

Bisogna abituarsi a cambiare direzione repentinamente: non siete più un “top performer” e dovete sforzarvi a delegare anche se non siete abituati a farlo……

Delegare significa dare la possibilità alle persone di esprimersi: chissà che facendo così non troviate un “top performer” che inizi a fare il “duro” lavoro al posto vostro..

2)     Pensare di dover avere la soluzione: il senso di responsabilità quando si passa da “single contributor” a team leader aumenta vertiginosamente (così come l’ansia.. anche se si crede sempre di essere abbastanza bravi da controllarla). L’errore più comune è farsi schiacciare e pretendere “troppo” da se stessi: non è una gara ma un’opportunità di acquisire nuove competenze e crescere professionalmente.

Cosa si dovrebbe fare?

Prenderla più comodamente: una promozione dovrebbe essere interpretata come una opportunità di “learning” e non come un evento in cui si deve dimostrare qualcosa a tutti i costi.

La pressione è normale perchè quando diventi un team leader tutti si chiedono “perchè proprio lui”?!? … bisogna resistere alla tentazione di dover per forza dare una risposta e concentrarsi invece sul fare bene il proprio lavoro.

3)     Farsi vedere forti ed ottimisti: per acquisire “il diritto ad essere in quella posizione” spesso si imposta un rapporto direttivo nei confronti dei propri collaboratori (che al posto di un capo che sbatte i pugni sul tavolo probabilmente preferirebbero una leadership “diversa”)

Cosa si dovrebbe fare?

Gestire se stessi: se non siamo direttivi di indole, dobbiamo approfittarne e prendere la palla al balzo per far venire fuori la parte “assertiva” di noi stessi… questo consente di condividere con i nostri collaboratori dubbi e perplessità che possono dare spunto a soluzioni che da soli non saremmo riusciti a trovare.

4)     Cercare di evitare situazioni grigie o di conflitto (che ci mettono in difficoltà fin da subito): nascondere la polvere sotto il tappeto è ciò che trasforma i problemi in “crisi”..

Cosa si dovrebbe fare?

Cambiare la tendenza ed essere meno “procrastinatori”: la polvere prima o poi ritorna per cui tanto meglio affrontare subito le situazioni spinose per evitare che queste si accumulino ed ingigantiscano problemi che comunque dovremmo affrontare

5)     Non accettare feedback negativi: gemello dell’errore precedente, è frutto di un’insicurezza che genera altre insicurezze… non essere recettivo ai feedback negativi porta a sovrastimare la propria performance nei confronti dei collaboratori e crea quindi un’insanabile scostamento dal proprio gruppo (che non si sente libero di condividere riflessioni che potrebbero aiutarci a “correggere il tiro”)

Cosa si dovrebbe fare?

Dimostrarsi aperti al confronto ed alla critica, vivendo anche questa come spunto di crecita e miglioramento

A pensarci bene sono tutti errori di “self awareness” che portano come effetto quello di apparire scarsamente adattabile ad un contesto nuovo che richiede competenze diverse.

L’abuso della parola “ leader” (e l’ID di un Leader…)

La parola #leader andrebbe usata con parsimonia…

Bisognerebbe usarla con “reverenza” ed invece è spesso abusata negli articoli, nei libri e nella maggior parte dei corsi di #management.

In molte aziende viene addirittura usata per dire che “ti occupi di qualcosa” (quando da neolaureato entrai nella gestione materiali di una multinazionale ero già un “material leader”).

Del concetto teorico di “#leadership” ne siamo drogati al punto tale da sconvolgerne spesso il significato ma un leader, per essere chiamato tale, dovrebbe avere un “set minimo” di caratteristiche quali ad esempio:

–        “spostare l’aria” quando entra in una riunione

– essere un “magnete” per le persone che lavorano con lui (indipendentemente dal loro ruolo e da “come va l’azienda”)

– essere visionario ed in controtendenza… in due parole… “fare la differenza” 

– “interessarsi disinteressatamente” degli altri  indipendentemente dall’estrazione, dal genere ma soprattutto dalla posizione

–         Guardare l’ambiente professionale come un campo di esplorazione e non come un campo da conquistare al Risiko.

La lista sarebbe lunga…

NON VENDO E NON CERCO NIENTE: gli errori banali di chi frequenta Linkedin (o altri “social”)

Il “Social network” è un luogo che deve avere una funzione “sociale” finalizzata a rimanere “connessi” ad un “network” fatto di persone che condividono interessi e tematiche (dal personal development su LinkedIn ai gattini di Facebook).

Per quanto riguarda Linkedin, la funzione “sociale” è quella di condividere idee e riflessioni che siano di ispirazione agli altri e che facciano “accendere la lampadina” (possibilmente iniziando una discussione).

Il network deve essere “di qualità” perchè deve essere ricettivo ai nostri contenuti… d’altronde chi è che vorrebbe “rimanere connesso” con qualcuno che scrive cose che NON CI INTERESSANO ed per lo più durante il nostro “tempo libero”?!?

La vita è già difficile di per sè…

Gli errori più comuni sono pertanto:

–         Stare alla finestra e giudicare (se un contenuto non vi piace, giratevi dall’atra parte)

–         Rimanere connessi per forza (se una persona non vi piace, levatela dal vs network)

–         Scrivere per autoreferenzialità (una delle poche cose universalmente etichettabile come “antipatica”)

–         Cercare accondiscendenza a tutti i costi

5 cose per trasformare la casa in ufficio

In tempi di scoperta dello “smartworking” o “remoteworking”, ci sono diversi modi per rendere il proprio ambiente più confortevole.

Per chi inizia a lavorare da casa ci sono alcuni consigli per rendere al meglio il luogo dove passiamo maggior parte del tempo della giornata. Di seguito quelli estratti da un articolo su zillow.com (liberamente tradotto).

Definisci lo spazio

Per chi non è abituato a lavorare da casa, è facile che la routine che mischia “affari familiari” e “lavoro” prenda una piega ingestibile: la prima cosa da fare per evitarlo è individuare una postazione “dedicata” per il lavoro: che sia in cucina o in salotto deve essere ordinata, funzionale, ergonomica e correttamente illuminata.

Alleggerisci

Ordine, ordine, ordine: mettere in quarantena la roba che non si usa più (leggetevi manuali smart di 6 sigma, lean organization etc.) e riordinate la postazione con le cose essenziali al posto giusto.

Cura l’ambiente che vedi

Ora che hai organizzato la “postazione” guardati intorno e crea un ambiente confortevole alla vista e che ti faccia sentire bene: se hai un muro decoralo o mettici foto/immagini  che possano ispirarti o creare un momento di relax anche mentre lavori. Come “momento di evasione” puoi anche mettere anche la lista delle cose che farai dopo la giornata lavorativa! (meglio se riguardano il tempo libero e se corredate con immagini)… roba insomma che mantenga il morale alto..

Fai un controllo di cosa vedono gli altri

Ora che hai sistemato quello che vedi tu pensa a quello che vedranno i tuoi colleghi o i clienti durante le video-call: lo sfondo..  è vero che puoi sempre usare uno sfondo “standard” ma considera che anche quello che hai dietro è “un tuo spazio” e che condividere qualcosa di personale. Assicurati che non ci siano pentole a giro e che quello che fai vedere rispecchi in modo ordinato il tuo ambiente e la tua personalità (e la professionalità ovviamente..). Dai un occhio all’illuminazione (non devi essere sotto i riflettori ma neanche come riapparso dall’oltretomba..)

Creare l’atmosfera

Se non hai mai avuto un ufficio tutto tuo (o se l’hai avuto e non ce l’hai più), approfitta dell’occasione: ora hai il tuo spazio… puoi metterci macchina da caffè, frigorifero e quel poster formato gigante che ti piaceva tanto. Puoi anche metterti la musica in sottofondo ed un’amaca come se lavorassi per Google: insomma, qualsiasi cosa ti faccia sentire a tuo agio.. un’ottima occasione per crearsi “l’ufficio dei sogni”

Imparare a chiedere: perchè è importante e perchè non lo facciamo..

Non c’è alcun dubbio che le interazioni fra esseri umani siano fondamentali nel determinare “come va il nostro mondo” e che queste interazioni siano regolate dal “saper chiedere” e dal “saper ascoltare” .

Antropologicamente, iniziamo a “chiedere” molto prima di iniziare ad “ascoltare”: fin dal grembo materno passiamo dalle richieste di cibo a quelle di attenzioni e “giocattoli”  (sempre più grandi dall’adolescenza in poi..).

Chiedere fa parte del processo comunicativo e serve non solo per “sopravvivere” ma anche per crescere all’interno della società (personalmente e lavorativamente).

Se però non esitiamo a chiedere quando si parla di “sopravvivenza”, abbiamo molte più difficoltà a chiedere per imparare o per progredire all’interno di un ambiente scolastico o professionale.

Sin dalle scuole molti di noi hanno difficoltà a fare domande, con l’unico risultato di uscire dalle lezioni rimanendo indietro e non avendo capito le spiegazioni di chi è lì a disposizione per darle (e ri-darle).

Personalmente sono cascato molte volte in questo tranello, pagando a caro prezzo una paura sciocca e molto spesso infondata: non capire un’intera lezione per una domanda non fatta comporta un raddoppio di energie per recuperare… un costo assolutamente sproporzionato specialmente se confrontato con la paura di essere criticato da  persone che non avrei neanche più rivisto..

Stessa cosa mi è successa quando ho iniziato a lavorare: la paura di chiedere ha inibito completamente la mia capacità di imparare velocemente e di ottenere pertanto un vantaggio competitivo nei confronti dei colleghi (rimanendo inevitabilmente indietro rispetto a persone senza questo tipo di “bias”…).

Ci sono voluti anni per uscire da questo schema ed avanzare domande (dentro o fuori dalla mia disciplina) senza timore di passare per “fesso”.

Anni per capire che un’interlocutore mediamente intelligente non ti giudica per una richiesta di chiarimento.

Anni per capire che rispondere ad una domanda, spesso rende i tuoi interlocutori più aperti alla condivisione perchè gli dà la possibilità di esprimere la propria conoscenza ed il proprio potenziale (esigenza fondamentale dell’essere umano..)

Anni in cui ho perso la possibilità di imparare velocemente, di acquisire esperienze che hanno richiesto molto più tempo e molta più fatica.

Chiedere è un atto rivoluzionario di estrema consapevolezza: vuol dire “conosco i miei limiti, i miei punti di forza e quelli di debolezza, domando per accrescere la mia conoscenza su quelli che riconosco essere aspetti su cui devo migliorare”.

Chiedere vuol dire: “ti dò la possibilità di insegnarmi qualcosa”, “chiedo perchè riconosco la tua professionalità ed il contributo che puoi darmi”

Chiedere non è pertanto un simbolo di debolezza ma piuttosto un sintomo di estrema intelligenza: dimostra apertura, umiltà, curiosità e voglia di imparare… dimostra rispetto per gli altri ed attenzione alla professionalità delle persone.

E poi, volendo essere estremamente pragmatici… senza chiedere non si può ricevere..

Smartworking e remote working: così vicini, così lontanti..

Anche se non tutti hanno potuto sperimentarlo direttamente, in tempi di Covid19 anche i sassi hanno imparato cosa vuol dire “lavorare da remoto”.

Molto spesso però si confonde il remote working (lavoro da remoto) con lo smartworking (lavoro intelligente): due soluzioni “vicine” etimologicamente ma “lontane” concettualmente.

“REMOTE” vuol dire che sposto il lavoro dall’ufficio a casa: faccio lo stesso lavoro, con le stesse modalità ma in un “luogo fisico diverso” (che non è il mare… come ci piacerebbe pensare).

“SMART” vuol dire che oltre a poterlo “spostare” fisicamente, lo faccio in modo intelligente (il che rappresenta la vera evoluzione perchè idealmente potrei deliberatamente decidere di andare al mare mezza giornata e lavorare l’altra mezza).

Nello “smartworking” le aziende danno la facoltà alle persone di gestire il proprio lavoro, decidendo in autonomia dove e come organizzarsi (con flessibilità di orario ma sempre garantendo i risultati attesi).

L’intelligenza (smart) non riguarda solo il lavoro (working) ma tutte le figure coinvolte: l’azienda deve essere intelligente nel dare strumenti e fiducia alle persone mentre i dipendenti devono esserlo nella gestione di se stessi e dei propri obiettivi.

Nel remote working si può decidere dove lavorare.. nello smartworking si può decidere se, quando e dove lavorare.

In un certo senso si può dire che il remote working rappresenta la libertà di spostamento mentre lo smartworking rappresenta un concetto di libertà più a 360 gradi (“spazio-temporale” anzichè solo “spazio”).

Lavorare in remote working vuol dire semplicemente spostarsi ma lavorare in smartworking vuol dire essere “psicologicamente” preparati: avere meno vincoli  ma anche un maggiore senso di responsabilità.

Può essere una lama a doppio taglio perchè può rendere liberi ma anche schiacciare le persone (se queste non sono sufficientemente predisposte a lavorare per obiettivi): è un win/win agreement ma richiede un’organizzazione aziendale e personale “differente”.

Quindi mentre il remote working è accessibile a tutti (purchè la tipologia di lavoro lo consenta), lo smartworking richiede specifiche caratteristiche: un mindset adeguato ed un’azienda lungimirante.

In conclusione chi durante il COVID ha lavorato in regime di “remote working” molto probabilmente alla fine della “fase 2” tornerà in ufficio… mentre chi ha avuto la possibilità di sperimentare con successo lo smartworking molto probabilmente resterà “smart”..

Il futuro delle aziende con “capitani coraggiosi” (visione VS paura)

Liberamente estratto dall’articolo “Leading With Your Head and Your Heart: CEOs who manage emergencies using emotion as well as logic and intuition find the best results in the short term and the long”

Il COVID-19 ci ha reso tutti consapevoli di quanto sia fragile e debole la civiltà umana..

Ci ha anche insegnato, attraverso l’esempio di alcune imprese, come si possa trasformare la crisi nell’opportunità di allargare la visione aziendale, facendo della propria “mission” uno scopo più ampio (ad esempio riconvertendo la propria produzione ad uso della collettività).

Capiamo sempre più l’importanza di una cultura non solo inclusiva ma anche “interdipendente” e chiunque voglia avere qualche chance di “ripartire” più forte di prima dovrà necessariamente sviluppare le 4 capacità dei leader saggi ovvero:

  1. Riuscire a dare una prospettiva più ampia ai propri dipendenti:

Far capire che la loro azienda non esiste solo per generare un prodotto ma per realizzare un pezzetto all’interno di un puzzle  interdipendente.. un mondo all’interno del quale ogni evento influisce sul business ed ogni azione del business influenza la società: ciò significa affrontare in modo creativo questioni globali come la disuguaglianza sociale, i cambiamenti climatici e le emergenze sanitarie.

  • Stimolare l’innovazione “frugale”:

              Periodi di crisi creano paura e necessità ma stimolano anche “l’arte dell’arrangiarsi” (di cui peraltro noi italiani siamo maestri). Innovazione frugale significa capacità di semplificare e riutilizzare ingegnosamente prodotti e risorse esistenti per raggiungere uno scopo più elevato. Non c’è niente di più efficace della necessità che genera “modi nuovi e creativi per arrivare ad un risultato”, per ripartire e reinventare radicalmente i prodotti dell’azienda, le catene di approvvigionamento ed i modelli di business (e temporaneamente usare le proprie stampanti 3D per realizzare dei respiratori..)

  • Rinnovare la sostenibilità come resilienza creativa.

Le aziende più sostenibili sono quelle che si adattano e progrediscono continuamente in un ambiente mutevole, ma rimangono fermamente fedeli ai loro valori fondamentali.

A marzo, quando gli è stato chiesto perché la società abbia preso l’iniziativa di realizzare maschere e ventilatori, il presidente della Ford ha dichiarato: “Siamo stati circa 117 anni. Siamo stati l’arsenale della democrazia durante le due guerre mondiali, abbiamo costruito polmoni di ferro per le vittime della poliomielite. Ogni volta che siamo chiamati, siamo lì “. Ha anche osservato: “Nessuno ha parlato delle implicazioni finanziarie [della creazione di maschere e ventilatori], perché si tratta di un’emergenza nazionale. Lo sistemeremo più tardi. “

  • Incanalare la paura per ispirare coraggio e favorire la connessione.

Molti dipendenti si sentono demoralizzati e paurosi per la propria vita e stabilità economica mentre il numero di casi di coronavirus e decessi aumentano e l’economia crolla. Invece di andare fuori di testa controllando costantemente il tasso di mortalità da coronavirus, possiamo scegliere di prestare attenzione ai milioni di operatori sanitari in tutto il mondo che prestano servizio disinteressatamente ai pazienti COVID-19. Il loro coraggio deve aiutarci a trascendere il nostro limitato ego ed a sperimentare una dimensione più grande, stimolando una cultura aziendale cooperativa che si prende cura del benessere dell’umanità:  creare una visione e dare ai dipendenti la possibilità di innovare senza paura.

Con l’aggravarsi della crisi di COVID-19, ci saranno CEO che continueranno a guardare ai numeri del businness (sperando di non farli decrescere) ed altri che creeranno “visione” e che consentiranno ai propri dipendenti di attingere alla loro ingegnosità e capacità di recupero. Questi ultimi, nel processo, reinventeranno fondamentalmente le culture e i modelli di business delle loro aziende per raggiungere uno scopo più elevato.

Abbiamo avuto altri momenti analoghi nella storia dell’umanità e dalle statistiche sembra che le aziende che in passato hanno privilegiano la sostenibilità sociale e ambientale rispetto ai guadagni monetari a breve termine, abbiano superato finanziariamente le imprese ossessionate dal profitto fino al 40% nel lungo periodo (ford ne è solo un esempio).