L’unico badge che dovremmo marcare…


Tutti gli anni vado a sciare qualche giorno con un mio compagno del liceo e quando passiamo per i tornelli della prima funivia puntualmente si accende sempre la stessa riflessione.

Dirigente medico, il mio amico passa il badge a lavoro da un minimo di due a un massimo di sei volte.

A seconda dello scopo dell’uscita, oltre a marcare il cartellino deve inserire una causale in una macchinetta degli anni ‘70 che in questo modo traccia tutte le presenze.

Anche se la marcatura nel suo caso ha anche altri scopi, ogni volta mi viene da riflettere: se non ci fidiamo neanche dei dirigenti che scegliamo al punto di dover controllare i loro accessi, come possiamo pensare di cominciare a cambiare organizzazioni anacronistiche e antidiluviane?

Ma soprattutto, funziona davvero un sistema in cui capita di trovare persone che timbrano regolarmente e che poi vanno a fare la spesa in orario di lavoro?

Una macchinetta per timbrare puó davvero regolare la quantità di lavoro che viene svolto e la sua bontà?

E soprattutto, che impatto ha in chi fa davvero il suo lavoro con coscienza e responsabilità?

Riesce a creare un legame di fiducia, di “sicurezza psicologica” o di equità?

Ha più senso controllare tutti indiscriminatamente con sistemi fallaci o impostare sistemi che si autoregolano facendo leva sulla autoresponsabilizzazione, sul senso di comunità e su poche regole chiare per tutti?

Ovviamente è solo uno stimolo di riflessione.

A volte la marcatura serve ma il punto è che bisognerebbe sempre chiedersi “quando è perché”.

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