Verità scomode sul talento


Le aziende spesso premiano un solo talento… ma non “il talento”.

Quando si parla di persone “talentuose” nelle aziende, troppo spesso si confonde la capacità di essere “resilienti” a condizioni predeterminate (che è pur sempre una “caratteristica” auspicabile), piuttosto che quella di essere un outsider.

Si preferisce l’allineamento al pensiero critico, la capacità di conformarsi piuttosto che quella di uscire dagli schemi, quella di adattarsi piuttosto che quella di voler migliorare le cose, quella di accettare lo status quo piuttosto che quella di provare a cambiarlo per adattarlo a un’evoluzione inevitabile.

Sì premia il fiato lungo più che i piedi buoni, il mediano più che il fuoriclasse, il segnapunti più che il giocatore…

È così che il concetto di talento viene completamente stravolto, identificandolo nella capacità di rispondere a determinate caratteristiche , di sposare ciecamente una causa, di dimostrare resistenza a condizioni difficili o di accettare gerarchie che hanno perso la loro efficacia per imparare a navigarci fino a che non verrà il proprio turno.

È questo il “talento”?

Questione di punti di vista.

Sicuramente questa concezione del talento racchiude una serie di caratteristiche funzionali a obiettivi e performance di breve periodo: peculiarità relativamente facili da trovare o “stimolare”, semplici da gestire e che  non presuppongono un investimento alto in capitale umano, né grosse energie per alimentarle.

Perché non vediamo altri tipi di talento in azienda?

La risposta è complessa, ma da quanto detto potrete capire come mai avere a che fare con un vero talento sia qualcosa di estremamente oneroso e impegnativo: richiede un alto tasso di consapevolezza, visione di lungo periodo, investimento continuo in crescita, un ambiente dinamico e un’attenzione maniacale alle persone e alle loro caratteristiche: tutte cose che spesso, erroneamente, si pensa possano togliere spazio al “business”.

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