Perché uno status symbol vi renderà dei manager peggiori…
I “lockers”, come il parcheggio o la “mensa dirigenti”, sono sempre stati degli “status symbol”.
Ricordo bene quando nel 2002, in visita agli stabilimenti di General Motors a Detroit, vidi una manciata di parcheggi con sopra delle targhette che riportavano i nomi dei “top manager” (l’azienda sarebbe poi fallita pochi anni dopo, ma questa è un’altra storia).
Con quell’immagine in mente, da ingegnere appena laureato, avrei lavorato per i dieci anni successivi per averne uno simile.
Fui fortunato quando nel 2007, nel rifacimento del parcheggio della piccola azienda per cui lavoravo, il direttore di stabilimento (per cui ero diventato una sorta di “vice”), disse al responsabile della manutenzione di riservarmene uno all’ingresso del cancello.
Ero al settimo cielo: avevo 30 anni e ricordo che identificai quel gesto come la “prova provata” non solo del mio valore, ma anche di una posizione per cui avrei potuto reclamare una “rendita” a vita.
La verità è che quel posto riservato non solo non migliorò la qualità del mio operato, ma mi dette l’illusione di aver acquisito un diritto per “merito”.
Mi allontanò ancora di più dalle persone che avevo intorno, creando una barriera invisibile che avrei fatto fatica a rimuovere anche con tonnellate di impegno, di lavoro e di rispetto per gli altri.
L’effetto “Dunning Krueger” (credersi più intelligenti di quello che si è realmente), è sempre dietro la porta per chi insegue status o simboli di potere (o per chi li mette più o meno inconsapevolmente al centro delle proprie attività).
Porta a concentrarsi su cose futili, mette una distanza enorme fra sé e gli altri, soddisfa solo il proprio ego e irrita quello di moltissime altre persone (ad esclusione di quei pochi adepti che, spesso per interesse personale, ci stanno intorno).
Uno status o un privilegio ci danno il diritto di pensare di valere più degli altri; è una cosa abbastanza fisiologica perchè coloro che non ne sono soggetti, generalmente agli status tendono a rinunciarci.
Quando avevo il “posto riservato” ero un manager mediocre; me ne rendo conto solo ora che ho capito l’importanza di non averlo.
Liberatevi dagli status (e dai condizionamenti dettati dal vostro “job title”) e vi libererete dalle catene invisibili che bloccano il vostro potenziale e quello delle persone da cui dipendono i vostri risultati.
E gli “armadietti riservati” togliamoli definitivamente: non dobbiamo più dormire in azienda e nei nostri pc portatili c’è un mondo che può stare in uno zainetto sulle nostre spalle…
… a meno di non pensare di aver diritto a far portare quel “peso” a qualcun altro (come al tempo dei romani).
La differenza fra ambienti mediocri e ambienti altamente performanti
La differenza fra ambienti mediocri e ambienti altamente performanti è che nei primi i singoli individui puntano a essere i più intelligenti della stanza… mentre nei secondi tutti si adoperano per rendere la stanza più intelligente.
E’ un concetto che è strettamente collegato con la differenza fra contesti fortemente orientati all’individualismo e contesti in cui viene sponsorizzato fattivamente il lavoro di squadra: una questione non solo di cultura e di scopo, ma anche di come vengono impostati gli indicatori di performance e i sistemi incentivanti.
La domanda originaria è: state incentivando il singolo contributo o chi realmente lavora per creare un gruppo formidabile?
E se lavorate, in che tipo di contesto siete?
“Capacità di astrazione” è diverso da “astratto”…
(Come la capacità di connettere i puntini sarà sempre più fondamentale)
Due giorni fa ho avuto una conversazione con una persona perchè in NeNet stiamo facendo scouting per ampliare l’offerta formativa includendo attività creative (e ricreative) di team building per aziende.
Mi ha colpito questa frase che lei ha inserito nella sua presentazione perchè riassume bene un preconcetto che differenzia i contesti “vecchio stampo”, da quelli veramente innovativi.
Fino a qualche anno fa la multipotenzialità, la creatività e la capacità di “astrazione” (quella in grado di far “connettere i puntini”, per dirla alla “Steve Jobs”), erano caratteristiche accessorie o addirittura penalizzanti rispetto a profili verticali ricercatissimi dal mercato.
La capacità di astrazione veniva spesso confusa con concetti “astratti”, poco pragmatici e lontani dalla esecuzione di compiti operativi (in cui contava più la velocità che l’agilità intellettuale).
Adesso che, nell'”era della conoscenza”, la creatività è stata riconosciuta come una caratteristica fondamentale in qualsiasi attività ad alto valore aggiunto (anche le più “ingegneristiche”), questa frase è quanto mai attuale.
Chiudo la riflessione con un passo del libro “L’almanacco di Ravikant” che mi ha colpito molto : “se possono formarvi perchè siate in grado di fare qualcosa, allora alla fine programmeranno un computer per farlo”….
…e se nel frattempo non avrete acquisito “capacità di astrazione”, è molto probabile che questo succeda.
Presto su: www.nenetcompany.com
Come valutate le persone da cui dipendono i vostri risultati?
Si parla sempre più spesso di flessibilità, di smartworking e di settimana corta… ma per essere “competitivi” e raggiungere il benessere in azienda, una cosa che è importante cambiare sono i criteri con cui vengono scelte e premiate le persone.
Oltre a tenere conto delle competenze verticali e delle capacità dei singoli di performare, ci sono altri criteri che sono fondamentali per ottenere risultati ottimali:
– Il comportamento proattivo: la capacità delle persone di prendere l’iniziativa e di apprendere/imparare al di là dei momenti istituzionali;
– Il comportamento prosociale: la tendenza ad aiutare i colleghi e a collaborare con le altre funzioni promuovendo il lavoro di squadra;
– L’affidabilità e l’indipendenza: la capacità di prendersi in carico le responsabilità e di portare a compimento il lavoro in modo indipendente.
Ultimo ma non ultimo:
– La reputazione… fatta dal riconoscimento dei colleghi, dal “personal brand” e dalle relazioni dentro e fuori il contesto lavorativo.
Troppo spesso siamo stati abituati a considerare questi aspetti come “secondari” (se non assenti nella valutazione del capitale umano)… ma invertire il paradigma e privilegiarli rispetto alle “valutazioni canoniche” è qualcosa che può rendere gli ambienti di lavoro migliori ed elevare la cultura e le performance generali.
Provare per credere..
“Se non appari sprovveduto, non sei abbastanza intelligente….” (cit.)
In NeNet facciamo una grande fatica a trovare collaborazioni e persone con un elevato grado di etica e, contemporaneamente, di professionalità
Eppure ci sono un sacco di persone che, specialmente guardando i social, sembrano essere super esperti, pieni di titoli e prolifici di dichiarazioni di competenza.
La maggior parte di noi si concentra più sull’apparire che sull’essere (o sul crescere): molti si impegnano più nella promozione di sé stessi piuttosto che sviluppare costantemente le proprie “skill”.
Qualcuno sostiene che “quando si spende più in comunicazione che in formazione non si va molto lontano”…
In costante debito di “tempo” (e di “clienti”), ognuno di noi è chiamato ogni giorno a scegliere se concentrarsi nel marketing o nel miglioramento dei propri prodotti/servizi.
A questo si aggiunge l’aspetto psicologico: impegnarsi ad imparare è un grande sforzo e porta in un’area “scomoda” in cui siamo costretti a fare domande col rischio di apparire poco competenti.
Ma purtroppo, come dice qualcun altro: “Se vuoi migliorare devi essere disposto ad apparire sprovveduto o stupido sugli argomenti che non conosci”.
Ma quanti di noi hanno voglia di correre questo rischio?
Pochi, pochissimi: ecco perché c’è una carenza endemica di eccellenza ed è più facile trovare persone che cercano di sopravvalutare le proprie competenze piuttosto che persone che si impegnano costantemente nell’acquisizione di altre capacità.
Personalmente diffido sempre di chi non si sente un po’ “stupido” o “inadeguato”… perché probabilmente non si sta impegnando troppo per migliorare e migliorarsi in aree nuove e necessariamente inesplorate.
“Se non chiedi non puoi imparare”…
Kobe Bryant parlò in un’intervista della propria sfacciataggine nel fare domande e di quella volta in cui trovò il coraggio di chiedere consigli a Michael Jordan (ben prima di diventare a sua volta un idolo del basket).
La celebre star della pallacanestro era famoso fra i suoi compagni per un’insaziabile curiosità che lo spingeva verso una costante ricerca di ispirazione (avrebbe poi vissuto una vita improntata alla scoperta e alla condivisione con gli altri).
Anche una volta raggiunti i massimi livelli della sua carriera, si dice che che Kobe continuò a imparare da chi lo aveva preceduto, passando il tempo in compagnia di altri giocatori e studiando ogni piccolo dettaglio dei loro movimenti migliori.
Hakeem Olajuwon (ex giocatore dei Rocket), alla domanda su chi fossero stati i suoi migliori allievi, menzionò Kobe Bryant per la sua “capacità di chiedere” e andare a fondo su ogni singolo dettaglio di gioco.
Aneddoto dal libro “progettare emozioni” di Greg Hoffman
Per approfondimenti sull’importanza di fare domande in ogni contesto: “il libro delle domande brillanti” di Warren Berger
La regola di Pareto applicata ai (presunti) talenti
“Il 20% dei dipendenti genera l’80% della produttività…” è la “regola dei pochi essenziali” del Dr Tomas Chamorro-Premuzic (psicologo e brillante autore di libri).
Una norma collegata al principio di Pareto che è esemplificativa anche di come molte aziende interpretano il concetto di “talento”.
Le organizzazioni guidate dal profitto sono interessate alla produttività e pensano (erroneamente), che solo poche persone possano essere responsabili della maggioranza dei risultati.
Vanno quindi alla caccia di “talenti”… che in questa ottica non sono altro che super-performer in grado di lavorare a testa bassa, senza creare troppi problemi e smarcando una grande quantità di lavoro.
La conseguenza è che queste persone vengono scelte per la loro capacità di eseguire task operativi, ricevendo l’etichetta di “talenti” e bruciandosi molto spesso nel tentativo di continuare a operare a ritmi elevati per tutta la carriera.
Il solo profitto distorce pertanto il concetto di talento (e quello di “leadership”), concentrando il focus su poche persone che sulla “corsa lunga” finiscono per andare in burn out o essere sostituiti dal prossimo “più resiliente”.
La normale conseguenza è che quel 20% rischia seriamente di bruciarsi mentre l’altro 80% va nell’insieme di quelli che Gallup definisce i “disengaged”… col risultato che diminuisce sia la vita media delle aziende che il loro grado di competitività.
Varrebbe la pena fare una riflessione collettiva, partendo dal fatto che smarcare task a più non posso rappresenta forse “una” capacità ma non la definizione piena di quello che è, veramente, un “talento”.
P.s: Un grazie a ChatGPT che in maniera “talentuosa” smarca quotidianamente moltissimi task operativi (compresa la generazione di immagini perfettibili).
La dura legge della meritocrazia…
“Quelli non dovete neanche guardarli…” è una frase che ci dicevano spesso le figure più senior.
Quando eravamo giovani e in piena rampa di ascesa nelle nostre carriere, avevamo accanto coetanei che sembravano come noi ma che avevano punti di partenza completamente diversi.
Correvano su una corsia preferenziale: godevano di un importante “networking di famiglia”, erano usciti da università prestigiose e avevano fatto qualche anno in consulenza.
Mentre noi faticavamo per farci spazio in strade affollate, confidenti nella meritocrazia e in ambienti in cui coltivare le nostre capacità e i nostri talenti, nel giro di pochissimo tempo loro ottenevano un posto riservato, una targhetta fuori dall’ufficio e ruoli e uno stipendio che solo una manciata di noi avrebbe raggiunto 15 anni dopo.
“Non dovete neanche guardarli” è un mantra che ci avrebbe perseguitato per molto tempo e che ci avrebbe rallentato ulteriormente mettendoci in dinamiche involutive che ci impedivano di costruire una “terza corsia” in cui crescere a prescindere dalle difficoltà del contesto.
Questo è uno dei motivi per cui, esattamente un anno fa, abbiamo pensato di aprire la formazione di NeNet anche a privati: per riunire persone ordinarie con percorsi straordinari e creare una terza corsia in cui sviluppare le proprie capacità senza troppo “traffico”.
In autunno ripartiremo con quattro eventi in presenza fra Bologna e Milano, un programma di formazione gratuita e la riconferma dei corsi online e dei programmi di coaching individuale (informazioni sul sito, sulla pagina LinkedIn e tramite newsletter).
Per approfondimenti sulla meritocrazia: “il potenziale nascosto” di Adam Grant e “la tirannia del merito” di Michael Sandel
Per approfondimenti su capacità e talento: “così bravo che non potranno ignorarti” di Cal Newport, “ribelli” di Melissa Schilling e “l’arte del talento” di Alberto De Biasi
Nominare un consiglio di amministrazione “personale” per prendere decisioni migliori…
Nel coaching c’è una tecnica che si chiama “creative mentor” e che si utilizza per cambiare prospettiva ed esplorare soluzioni a problemi importanti.
Consiste nel visualizzare una persona che riteniamo rilevante per la decisione da prendere e capire come reagirebbe in quella determinata situazione.
In qualsiasi posizione professionale, è fondamentale utilizzare tecniche come il “creative mentor” per riuscire a spostare il proprio punto di vista.
Questo può essere fatto anche nominando di volta in volta una sorta di consiglio di amministrazione “personale”: un gruppo di 3/4 persone diverse per estrazione, età e settore che possano dare un contributo su un’idea o su come realizzare un prodotto o un servizio.
Un “consiglio di amministrazione personale”, è estremamente utile perchè serve a ricevere contributi o feedback non vincolanti o a fare domande specifiche a soggetti disinteressati (magari scollati dal contesto di riferimento in modo che possano fornire punti di vista diversi).
L’idea è quella di avere un mix di persone fidate che allarghino visione e prospettiva, che forniscano spunti e idee o che ci aiutino a confutare le teorie che sviluppiamo sulla base dei nostri pregiudizi.
Spesso la cosa che blocca di più il potenziale di chiunque (soprattutto di chi occupa posizioni manageriali), è la totale mancanza di un riscontro sincero sul proprio operato: nominare un consiglio di amministrazione informale ed esterno, serve ad aumentare la qualità del proprio pensiero… e ad evitare che queste “mancanze fisiologiche”, in assenza di un “coach”, non impattino il raggiungimento dei propri obiettivi.
Un euro speso durante l’assunzione di una risorsa, ne vale cento spesi nel suo sviluppo”.
Investire per approfondire chi ha veramente talento prima di assumerlo, è molto più redditizio che investire nel suo sviluppo successivo.
Molte aziende si concentrano nello sviluppare o nel trattenere talenti investendo energie enormi… ma non ne impiegano altrettante nel valutare le reali capacità di una persona in fase di assunzione.
Perchè?
Spesso le assunzioni seguono fasi sincopate: quando il mercato è fermo non si assume… mentre quando si muove si deve fare tutto in fretta (senza perdersi in eccessive “indagini”).
Non si investe sul “gioco lungo” e non si pianifica strategicamente, col risultato che quando si aprono le finestre delle assunzioni, le organizzazioni buttano dentro risorse in modo massivo (magari a strapagandole se la domanda è più alta dell’offerta e non impiegando sufficiente tempo ad approfondire quello che stanno “comprando”).
La realtà è che una volta che hai assunto qualcuno, potenzialmente devi tenerlo per molti anni (e, ironicamente, tanti più anni quanto meno l’individuo è “talentuoso”).
Converrebbe quindi investire molte più risorse per capire bene chi si ha di fronte seguendo il consiglio di chi dice che: “un euro speso in assessment ne vale cento spesi in development”.
Questo vale non solo per le assunzioni ma anche per la scelta delle collaborazioni (in un processo che, per chi punta sulla qualità, è estremamente lungo ma altrettanto profittevole sul lungo termine).
Immagine generata da AI per un “recruiting frettoloso”