Sgombrare la strada e togliere la pressione dovrebbe essere il nostro scopo principale.



Il talento non si comanda e non si “imbriglia”: deve trovare naturalmente la propria strada per potersi esprimere al meglio e lasciare un segno positivo in chi lo possiede (mettendolo in condizioni di viverselo bene e di goderne appieno).

Di quelli che fanno sport, pochissimi arrivano a livelli mondiali: nonostante questo, moltissimi genitori riversano nei figli aspettative che ne condizionano la vita per sempre.

Anche nei pochissimi casi di successo, il prezzo da pagare è altissimo; pensate ad esempio alla storia di Agassi (leggete “open”): numero uno al mondo che fu costretto a odiare il tennis da un padre che lo voleva campione a tutti i costi.

E pensate a tutti quei figli che a causa delle pressioni dei propri genitori, della scuola e degli ambienti di lavoro, vivono costantemente con la sensazione di non essere mai abbastanza, di non aver fatto tutto ciò che era necessario per “eccellere”.

Non stiamo forse mettendo troppa pressione o alzando troppo le aspettative invece di sgombrare la strada dagli ostacoli e dare ai figli o alle persone gli strumenti giusti per diventare quello che sono? È proprio fondamentale “eccellere” o dettare le regole per farlo?

Sono domande che mi faccio da padre, da professionista ma anche da persona che di pressioni indotte o auto-indotte ne ha subite molte.

Perché quando devi rispettare un modello, o dimostrare di essere all’altezza di quello che hai o di quello che ti viene dato, le possibilità sono due: o vivi nella frustrazione di non meritarteli, o inizi a metterti pressione da solo per raggiungere quello che gli altri si aspettano da te (vivendo male a prescindere dal successo che ottieni).

“È un mondo difficile” che dovremmo provare a rendere più leggero: non solo per fare emergere il talento dove c’è, ma soprattutto per costruire una società più sana.

La trasparenza come “new normal” (anche nelle aziende)

Il concetto di trasparenza in azienda può essere applicato a diversi aspetti:

  1. –         Nella diffusione della cultura aziendale;
  2. –         Nella comunicazione degli obiettivi;
  3. –         Nella condivisione delle scelte strategiche;
  4. –         Nell’armonizzazione delle dinamiche di team;
  5. –         Nella gestione dei progetti, dei processi, delle metriche e delle funzioni;
  6. –         Nell’allocazione di budget e risorse.

Vediamo come e perchè ha senso fare della trasparenza un pre-requisito… per ognuno di questi aspetti.

Nella diffusione della cultura aziendale

Secondo uno studio Deloitte del 2016, circa tre dirigenti su quattro hanno affermato di non conoscere la cultura della propria azienda intesa come valori, mission e modus operandi del business di riferimento.

Se le persone non comprendono lo scopo più elevato della propria azienda, e il modo in cui il top management interpreta il business in cui opera, è inevitabile che ci sia un minore coinvolgimento e quindi un abbassamento delle prestazioni.

Pertanto, risulta di fondamentale importanza l’ingaggio delle persone (unica vera forza propulsiva per ogni organizzazione) che passa da consapevolezza, informazione, coinvolgimento e condivisione.

La trasparenza diventa, quindi, un requisito fondamentale per spingere le prestazioni al massimo delle potenzialità. Lo sa bene Netflix, fra le prime aziende a redigere il “culture deck”, un documento consultabile da tutti i dipendenti (e dai competitor), contenente informazioni su tutti i principi alla base delle operazioni dell’azienda.

Nella comunicazione degli obiettivi

Se gli obiettivi di alto livello restano segreti (o appannaggio del CEO e della prima linea), le persone non hanno visibilità né del proprio lavoro, né del proprio contributo al risultato dell’azienda.

Questo crea entropia a diversi livelli generando disturbi che non vanno nella direzione di un efficientamento di tutte le risorse presenti in azienda.

Chiarire gli obiettivi è il primo passo per definire a cascata i risultati chiave che ogni gruppo di lavoro deve perseguire per far sì che l’intera azienda riesca nel suo scopo.

Per questo, con trasparenza nella definizione e nella comunicazione, i CEO dovrebbero definire le aspettative e saperle tradurre in risultati operativi di breve termine che ogni gruppo deve perseguire durante l’anno, collegando le attività di tutti i giorni alla vision dell’organizzazione e mettendo in condizione i dipendenti di verificarne periodicamente l’allineamento.

Se non si comunica con trasparenza, specialmente in organizzazioni gerarchiche e con molti livelli di comando, non è possibile dare una rotta univoca e si generano, invece, interpretazioni o deviazioni che incidono sui risultati.

Viceversa, quando le persone sono allineate agli obiettivi di più alto livello dell’azienda, il loro impatto si amplifica.

Nelle scelte strategiche

La comunicazione del motivo per cui vengono intraprese scelte strategiche come acquisizioni, cessioni, divisioni strutturali o riorganizzazioni, è fondamentale per dare una comprensione univoca di quello che sta succedendo.

Quando l’azienda condivide trasparentemente i propri obiettivi strategici, si eliminano tutti gli effetti che inducono paure e perplessità relativi ai macro-obiettivi di medio-lungo termine.

Definire la strategia dei prossimi cinque anni, e spiegarla ai propri dipendenti, rende gli stessi più consapevoli, informati e liberi di scegliere per il proprio futuro con ripercussioni positive per l’organizzazione.

Un dipendente è come il membro di un equipaggio di una nave che stabilisce una direzione: quando conosce la destinazione e ha modo di verificarla costantemente lungo il viaggio, acquisisce il potere di decidere se remare con più forza, oppure scendere e scegliere un’altra alternativa più in linea con le sue aspirazioni.

Le persone che scelgono la loro destinazione hanno anche una consapevolezza più profonda di come fare ad arrivarci nel più breve tempo possibile.

Nelle dinamiche di team

Scegliere la trasparenza nelle dinamiche di gestione del team è fondamentale per tenere un team coeso e concentrato sugli obiettivi.

Quando si conosce alla perfezione chi fa che cosa, è maggiore la probabilità di avere membri che collaborano fra loro e che si aiutano in caso di difficoltà.

La trasparenza all’interno di un team serve anche per rendere più limpido il processo meritocratico: perché quando chiunque mette per scritto quello a cui sta lavorando condividendone i risultati, è molto più facile vedere da dove arrivano le idee migliori.

Trasparenza nelle dinamiche di team vuol dire anche saper gestire i feedback: comunicare trasparentemente i punti di forza e di debolezza dei singoli membri, consentendo di fare leva sui primi in modo da migliorare i secondi, favorisce la crescita individuale e dell’intero gruppo.

Manager che informano sulle proprie scelte, che condividono il lavoro dei membri, che elargiscono feedback e sono aperti a riceverli, producono un risultato qualitativamente migliore favorendo una sana competizione interna.

Nella gestione dei progetti, dei processi, delle metriche e delle funzioni

Quando non si è trasparenti nella gestione dei progetti, della loro gestione ed esecuzione, c’è il rischio di lavorare a cose che non producono risultati apprezzabili (perdendo energie preziose sia in demotivazione che in obiettivi, senza valore aggiunto rispetto alla mission aziendale).

Specialmente nelle grandi aziende, le dimensioni impongono strutture che spesso si intersecano fra loro creando da un lato aree non coperte da figure professionali, e dall’altro aree in cui, al contrario, ci sono numerose ridondanze.

Trasparenza nella gestione dei progetti e delle funzioni significa condivisione delle proprie attività, delle proprie metriche e del proprio modus operandi.

Significa essere disposti a mettersi al servizio del gruppo, rinunciando a lavori e incarichi già ampiamente monitorate da altre funzioni, o gruppi di lavoro, per coprire aree grigie o lavori che sembrano non essere responsabilità di nessuno.

Questo elimina le ridondanze, favorisce le collaborazioni fra unità e divisioni diverse, e contribuisce ad eliminare fraintendimenti.

Nell’allocazione di budget e risorse

Quando c’è trasparenza nell’allocazione di budget e risorse, la questione operativa non diventa più una questione di logiche feudali o di accaparramento di maggiori risorse a scapito di altri.

Quando si condividono in modo trasparente sia le problematiche, che le esigenze di budget o risorse, l’allocazione diventa una questione di logica su cui le persone, (dipendenti o capi funzione), sono maggiormente disposte a ragionare.

Conclusione

La trasparenza non è più una scelta etica che dipende dall’imprenditore o da un gruppo ristretto di manager illuminati.

La trasparenza è diventata una caratteristica fondamentale per acquisire un vantaggio competitivo: essere più agili e veloci nel prendere decisioni migliori.

Chiudere i libri contabili, le stanze dell’alta dirigenza, i fascicoli dove sono contenuti progetti o acquisizioni future nell’era dell’informazione e della velocità, sono scelte che mettono a serio rischio organizzazioni che in un mondo VUCA (Volatile, incerto, complesso ed ambiguo) devono potersi muovere velocemente per poter cambiare rapidamente, sfruttando la forza propulsiva delle proprie risorse in modo da alzare l’asticella della competitività e navigare in un futuro pieno di possibilità.

La trasparenza vale top-down ma anche bottom-up: le persone devono poter essere libere di condividere informazioni e dare feedback costruttivi al management in un ambiente di totale trasparenza: chi è sul campo entra più facilmente in contatto con i cambiamenti che stanno per arrivare ed ha una maggiore sensibilità sui desiderata dei clienti. Poter suggerire e comunicare azioni, o indurre il top management a prendere velocemente decisioni, può essere talvolta l’unica soluzione per non perdere quote di mercato e non farsi battere dalla concorrenza.

“È più divertente fare il pirata che entrare in Marina”


Così disse Steve Jobs quando venne licenziato dal board della sua stessa azienda allontanandosi forzatamente da Apple.

“La marina” per lui erano tutte le organizzazioni con regole eccessive che ostacolavano l’innovazione, il pensiero laterale e quello critico.

La maggior parte delle persone preferisce entrare in “Marina” perchè questa garantisce sicurezza, un’ampia zona di confort e una serie di vantaggi innegabili.

Purtroppo però gli stessi vantaggi di queste organizzazioni strutturate, limitano molto la creatività, l’impatto che le nostre decisioni possono avere sul business, la qualità del lavoro e la possibilità di spingere verso nuovi orizzonti di servizi o di prodotti.

La “Marina” tende ad “appiattire” procedendo lentamente e con piccoli passi su un percorso evolutivo che parte dal vecchio: i pirati viceversa rappresentano il totale sconvolgimento dello status quo e un terreno fertile per inventare qualcosa di completamente nuovo (almeno così la pensava Steve Jobs).

Per questo, dopo il suo licenziamento, l’ex capo di Apple issò fuori dalla sua nuova azienda una bandiera disegnata da Susan Kare (che la dipinse nel 1983 dopo la nascita di “Lisa”, precursore del primo Mac): la bandiera fu una dichiarazione di guerra a quei dirigenti conservativi di Apple che lo licenziarono nel 1993 e che vedevano il suo team come una banda di pirati ribelli.

La storia avrebbe poi dato ragione ai pirati… almeno per una volta.

P.s.: ai tempi di Jobs non c’erano i modelli “ibridi”: oggi il futuro delle aziende è riuscire a navigare in vascelli della Marina con una mentalità da pirati, sfruttando la struttura e l’organizzazione ma rimanendo pronti a mettere in discussione lo status quo (quando ci si rende conto che questo “ha perso il suo status”).

Per approfondimenti: “ribelli” di Melissa Schilling, “talento ribelle” di Francesca Gino e la storia dei pirati (che rappresentano tuttoggi, uno dei più moderni modelli di diversità, inclusione ed “equità”)

Partecipare (#15/2024)

Partecipazione è una delle parole chiave del nuovo lessico del mondo del lavoro.

Ne parliamo quando trattiamo modelli organizzativi all’avanguardia, quando discutiamo della rinnovata ricerca di uno scopo comune ma anche quando auspichiamo un futuro meno individualista e più “collettivo”.

Partecipazione è una parola che si sottintende spesso anche quando si parla di comunità: un argomento a noi piuttosto caro visto che sull’idea di comunità abbiamo basato il “pay-off” di Nenet e la maggior parte delle attività di formazione dei nostri “Chum” (luoghi in cui la partecipazione e l’appartenenza sono dei “pre-requisiti” fondamentali per rendere efficace ogni apprendimento).

Insomma… partecipazione è qualcosa che anche quando non esplicitato come termine lessicale, rappresenta un concetto implicito quando si parla di futuro, di evoluzione umana e di aziende 4.0.

In questa collana “voci del lavoro nuovo” edita da @franco angeli, si parla di “partecipazione” nell’ottica di intraprendere scelte e azioni volte ad aumentare il benessere collettivo: usandola come leva strategica di trasformazione e amplificandone il senso per generare quel senso di fiducia e “accountability” che è alla base di risultati straordinari.

Partecipazione è quindi un manifesto che invita tutti noi a far parte di qualcosa di più grande, a promuovere l’evoluzione organizzativa attraverso quella dei gruppi che ne fanno parte e ad entrare a far parte più attivamente di quel cambiamento culturale e valoriale tanto atteso quanto necessario.

Grazie a una duplice prospettiva in cui le persone diventano responsabili della propria “partecipazione” e le aziende organismi impegnati nella creazione di ambienti favorevoli, questo libro è un esortazione a trovare il proprio spazio di espressione e la propria voce: un invito a essere maggiormente consapevoli del proprio impatto e dell’importanza del proprio contributo per la co-creazione di modelli diversi, più evoluti e maggiormente auspicabili.

Il piano B è un’alternativa che ognuno di noi dovrebbe avere…


A cosa serve un piano B?

Serve per acquisire non solo una libertà finanziaria, ma anche quella libertà “morale” che si traduce in uno stato di benessere che favorisce la massima espressione delle proprie capacità.

Con un piano B puoi essere te stesso in ogni contesto perché hai la possibilità di poter contare su una via di uscita quando i piani A non vanno come dovrebbero (cosa che in una vita “normale” accade piuttosto frequentemente).

Avere un piano B vuol dire costruire nel tempo nuove strade: maturare nuove competenze, migliorarsi ogni giorno e imparare a capire che non esiste “il lavoro della vita” ma esisti tu e nuovi percorsi da tracciare.

Significa lavorare per un’azienda mentre si lavora su se stessi per far crescere un “capitale di competenze” che col tempo dà vita a contatti, attività, nuovi posti in cui stare e nuove persone da frequentare.

Il “piano B” è qualcosa che aiuta ad allargare le prospettive e avere maggiore flessibilità… ma è anche un libro che contiene “10 consigli” per costruirsi un’alternativa e le testimonianze di moltissimi professionisti che hanno avuto la caparbietà e il coraggio di disegnare un “nuovo futuro professionale”.

A pagina 198 del libro di Vittorio e Luigi trovate un mio contributo, insieme a quelli di Fabiana Andreani, Massimo Begelle, Irene Boni, Teresa Budetta, Carlo Caporale, Marco Ceresa, Martina Domenicali, Emanuela Ferro, Gabriele Ghini, Simone Giorgi, Giulia Lapertosa, Andrea Malacrida, Federica Pasini, Filippo Poletti, Gianluca Raisoni, Walter Romano, Andrea Splendiani, Eleonora Valè e Roberta Zantedeschi

“Non veniamo ricordati per le 1000 volte che falliamo ma per l’unica in cui abbiamo successo”

Oggi celebriamo Steve Jobs come uno dei più grandi geni della storia ma anche lui, come molti altri, ha costellato la sua carriera di errori…

Per una visione dicotomica e irrealistica di tutto quello che ci circonda, siamo portati ad attribuire troppa importanza al successo e poca al fallimento.

Eppure entrambi sono lati della stessa medaglia e la verità è che non c’è talento senza sperimentazione e un accumulo seriale di errori.

Per quanto siamo affascinati dalla favola del colpo di genio, la questione è meramente frutto di una logica statistica, mentre rimangono ignoti e poco logici i motivi per cui siamo attratti da una narrativa che ci fa ricordare solo i successi delle persone e mai gli innumerevoli fallimenti a cui le stesse si sono sottoposte con coraggio e determinazione per riuscire a raggiungere l’apice.

Non esiste talento senza determinazione e senza la deliberata volontà di sbagliare fino a raggiungere quell’unico punto per cui verremo ricordati…

“Lo scopo nella vita è una vita con uno scopo” (Bernard Shaw)



Solo quando c’è uno “scopo” anche al lavoro, la dimensione professionale assume senso e pienezza.

“Trovate uno scopo in quello che fate e se non c’è inventatelo”…

Un uomo alla catena di montaggio faceva lo stesso lavoro ogni giorno: spostava gli stessi pezzi nello stesso modo a ripetizione… 5 giorni su 7, mese dopo mese.

Poi si dette lo scopo di migliorare i propri tempi da una settimana a un’altra: cominció a studiare i cinematismi del suo corpo, nuove attrezzature e qualsiasi cosa potesse migliorare quel processo routinario.

Divenne sempre più bravo e venne promosso… ma gli sembrò di non aver fatto niente di eccezionale se non trovare modi per alleggerire le proprie giornate.

Si può trovare uno scopo anche nei lavori più monotoni se solo si cambia la prospettiva e ci si impegna a mettere un po’ di quello che si è in quello che si fa.

Cercare uno “scopo” anzichè un “lavoro” è fondamentale per il proprio benessere, per evitare burn out, great resignation, quite quitting o qualsiasi altro fenomeno non vada nella direzione di una piena realizzazione.

E’ una responsabilità che (purtroppo o per fortuna) non è possibile delegare a nessuno.

Aneddoto tratto da “Mindset” di Carol Dweck

Gli errori del manager (#14/2024)

La differenza fra un manager e un altro risiede non tanto dalla quantità di errori commessi, quanto dall’atteggiamento nei confronti degli stessi…

Figli di una cultura del secolo scorso, ho visto molti di loro nasconderli, ometterli o deliberatamente girarli a colleghi e sottoposti.

Più raramente ho visto prendersene la responsabilità, accettarli, analizzarli, affrontarli e farli diventare un’occasione di crescita non solo per se stessi ma anche per i propri “team” (anche perchè, in un’epoca non troppo lontana, quest’ultimo approccio veniva considerato più rischioso che coraggioso, più lesivo che pionieristico e più sintomo di debolezza che frutto di un’estrema lungimiranza).

Eppure l’unica accelerazione possibile all’evoluzione a passi veloci imposta dalla tecnologia continua ad essere sempre quella che ha plasmato la nostra realtà nei secoli: quella che segue l’osservazione critica di ciò che facciamo e che sbagliamo… e che ci fa progredire in misura proporzionale a quanto siamo in grado di accettare la nostra “fallibilità” per farne un punto di partenza verso obiettivi più ambiziosi.

E ripensando agli “outsider del management” che ho avuto la fortuna di incontrare, ricordo bene quanto considerassero gli errori parte di un processo, guardandoli più con curiosità che con timore (consci delle proprie “spalle da giganti” e per niente intimoriti dagli effetti che questi avrebbero potuto giocare sulla propria carriera).

Fatta questa premessa e messa da parte l’esperienza personale, ho trovato ne “gli errori del manager”, molti spunti utili e tanti degli errori classici che si fanno in posizioni apicali (quando paura e egocentrismo limitano notevolmente il potenziale di tutti).

Attraverso numerosi casi e suggerimenti pratici, il libro di Andrea, Massimo e Massimiliano aiuta a riflettere e intervenire sulle principali cause di errori in ruoli tanto ambiti quanto complessi.

Un libro completo che analizza i principali deficit della leadership odierna:

–         Deficit percettivo: mancanza di una profonda comprensione delle interfacce e della complessità dei nuovi contesti;

–         Deficit emotivo: sopravvalutazione o sottovalutazione delle emozioni proprie e altrui (e della loro, complessa, inter-relazione);

–         Deficit comunicativo: mancanza di trasparenza, rispetto e critica costruttiva nei confronti di tutti gli “stakeholders”;

Tutti campi su cui lavorare attraverso formazione ed executive coaching per fare un salto qualitativo verso una leadership più partecipata, più consapevole e maggiormente efficace.

Come fare per avere più tempo

…quasi mai lo usiamo come dovremmo, ma il tempo è davvero “la risorsa più preziosa che un uomo può spendere” (Teofrasto 322 a.C.)

Ce ne rendiamo conto solo dopo averne perso una quantità enorme in cose che danno l’apparenza di essere produttive, ma che in realtà spesso tolgono energie e focus su ciò che conta davvero.

Il tempo non significativo è sempre troppo, che sia quello passato su uno smartphone o quello impiegato nel tentativo di fare più cose contemporaneamente.

Ma esiste un modo per imparare gestirlo, con un processo lento ma graduale.

Il primo consiglio è fare un’analisi delle nostre caratteristiche, delle cose che ci rappresentano maggiormente e a cui vogliamo dare priorità.

Il secondo è imparare a usarlo al meglio e in modo “funzionale” acquisendo una “progettualità” rispetto alla direzione che vogliamo imboccare.

Il tempo è il coefficiente che può fare la differenza nella sfera professionale e personale, e visto che nessuno può “comprarlo”, l’unica soluzione è imparare a comprenderlo e ottimizzarlo.


Altri spunti per la produttività: Detto fatto (David Allen), Dritti al sodo (George Mc. Keown), Tiny habits (J B Fogg), i corsi Nenet su gestione del tempo e micro-abitudini disponibili su www.nenetcompany.it

Lasciare spazio ai giovani

A 34 anni abbiamo tutti energie da vendere…

Abbiamo idee, stimoli, passione, apertura mentale, voglia di imparare e flessibilità.

Io ricordo che non avevo l’esperienza di ora, ma avevo un livello di conoscenza sufficiente per migliorare le dinamiche dell’organizzazione in cui ero manager.

Non stavo troppo dietro alla politica né ai titoli: avevo pochi bias e qualche difetto, ma possedevo già quel mix di irriverenza, voglia di fare e capacità di coinvolgere gli altri per renderli parte attiva di un cambiamento.

Sono sicuro che i miei 34 anni non sono stati molto diversi da quelli della maggior parte delle generazioni precedenti e successive (nè dai vostri).

Questo perchè a quell’età hai tutto quello che serve e quello che ti manca puoi sempre impararlo (con qualcuno che abbia la volontà di insegnartelo).

Quando hai 34 anni e diventi primo ministro di una delle economie trainanti del nostro continente, non devi sperare di essere “all’altezza”: devi sperare di trovare un ambiente che ti lasci concentrare sul tuo lavoro anzichè farti perdere energie per scansare mine o difenderti da cose che non fanno parte della tua “agenda”.

A 34 anni devi augurarti di trovare compagni e avversari che invece di tirarti giù perché “troppo giovane”, ti supportino a fare il meglio delle tue possibilità… consentendoti di mettere mano a dinamiche che per interessi individuali nessuno ha interesse a cambiare.

In bocca al lupo a tutte quelle società e organizzazioni che hanno il coraggio di puntare sulle nuove generazioni senza limitarle, controllarle o pretendere che siano macchine da 500 cavalli a cui devi mettere un freno per evitare che arrivino prima di te.

Abbiamo bisogno di menti brillanti da affiancare e supportare per non morire di mediocrità… in qualsiasi campo e a prescindere dall’età, dalla etnia, dalla religione, dall’orientamento sessuale e dalla ideologia politica.