non veniamo ricordati per le 1000 volte che falliamo ma per l’unica in cui abbiamo successo

Oggi celebriamo Steve Jobs come uno dei più grandi geni della storia ma anche lui, come molti altri, ha costellato la sua carriera di errori…

Per una visione dicotomica e irrealistica di tutto quello che ci circonda, siamo portati ad attribuire troppa importanza al successo e poca al fallimento.

Eppure entrambi sono lati della stessa medaglia e la verità è che non c’è talento senza sperimentazione e un accumulo seriale di errori.

Per quanto siamo affascinati dalla favola del colpo di genio, la questione è meramente frutto di una logica statistica, mentre rimangono ignoti e poco logici i motivi per cui siamo attratti da una narrativa che ci fa ricordare solo i successi delle persone e mai gli innumerevoli fallimenti a cui le stesse si sono sottoposte con coraggio e determinazione per riuscire a raggiungere l’apice.

Non esiste talento senza determinazione e senza la deliberata volontà di sbagliare fino a trovare quell’unico punto per cui verremo ricordati..

35.000 decisioni e una delega..

35.000 sembra essere il numero di decisioni che ognuno di noi prende ogni giorno (da un articolo del New York Times del 2016)

Gran parte di queste sono piccole e automatiche (come quelle che prendiamo sul cibo o sul vestiario) ma il numero è comunque talmente elevato che il nostro cervello è sempre più facilmente “sotto stress”.

Succede a tutti ma in particolare a micro-manager, imprenditori troppo operativi o team leader inseriti in strutture gerarchiche complesse.

Quando si ricoprono ruoli di un certo tipo, succede spesso che o per volontà o per contingenza, si prendano decisioni anche sul colore della cancelleria, rinunciando inevitabilmente a essere lucidi quando è il momento di prendere decisioni più importanti.

Il nostro cervello è una grande macchina ma è limitata: “mangia” di tutto ma elabora solo un numero limitato di informazioni.

Tenere basso il carico cognitivo e concentrarsi sulle cose che danno valore, è fondamentale per mantenere alta l’efficienza e l’efficacia nel proprio lavoro.

Per farlo, uno degli strumenti migliori è la delega dei propri collaboratori e delle persone che ci circondano: una capacità che invece di essere considerata come qualcosa di “desiderabile”, dovrebbe essere un pre-requisito minimo per valutare chi deve gestire una pressione elevata e una mole di decisioni che può togliere lucidità anche alla persona più “esperta”.

Se siete un CEO, un imprenditore o un manager, riflettere sul contenuto delle decisioni che dovete prendere e fare in modo che siano poche e significative è forse la cosa più importante che potete fare per voi e per gli altri.

P.S: Mark Zuckerberg, ha detto di aver scelto di indossare sempre lo stesso tipo di maglietta per potersi concentrare maggiormente sulle “decisioni che contano” (presumibilmente delegando quelle più operative al proprio team e alleggerendo ulteriormente il proprio “carico cognitivo”)

“Restiamo in disaccordo e impegniamoci”

Lo scrisse Jeff Bezos in una lettera agli azionisti del 2016 e sintetizza quello che devono fare le aziende più produttive e innovative al mondo quando devono prendere una decisione.

Invece di perdere tempo nell’allineare tutti, viene scelta l’opzione con più sostenitori dopodiché tutti gli altri (anche quelli in disaccordo), si impegnano a implementarla al massimo, supportandola come se fosse la loro.

Questo ha due vantaggi:

– rende il processo decisionale molto più veloce (eliminando lunghe riunioni di allineamento che rallentano ogni processo);

– mitiga l’effetto dei “franchi tiratori” (coloro che ostacolano decisioni che non vanno in direzione delle proprie proposte).

Quando in un’organizzazione c’è un’intesa comune di cosa vuol dire “restiamo in disaccordo e impegniamoci”, le idee si implementano molto più velocemente e c’è più spazio alla sperimentazione e a una rapida reazione ai fallimenti.

In NeNet, insieme a modelli di feedback basati sulla “sincerità radicale”, questo è un concetto che sta alla base sia dell’offerta formativa che della costruzione di modelli interni orientati al risultato e alla trasparenza: qualcosa che abbiamo imparato dopo aver visto quanta inefficienza porta la mancanza di chiarezza all’interno di qualsiasi rapporto (professionale e non).

Per approfondimenti: lettera agli azionisti Jeff Bezos 2016, “sincerità radicale” di Kim Scott, “i principi del successo di Ray Dalio, “l’arte della leadership” di Michael Lopp e la nostra pagina LinkedIn.

Multipliers (#47/2023)

Come accendere l’intelligenza delle persone…

Ovunque siamo circondati da contesti in cui l’intelligenza non solo non viene accesa, ma spesso viene spenta.

Succede più o meno volontariamente ma anche ambienti con una concentrazione di talenti alta, sono dominati da dinamiche che rimettono costantemente in una scatola quei colpi di genio di cui molte persone sono capaci quando si trovano circondati da “multipliers”.

I “multipliers” sono “moltiplicatori” di energie.

Sono quegli individui che anche senza dirtelo espressamente, ripongono in te una fiducia incondizionata e ti forniscono tutto il materiale e il supporto necessario per consentirti di raggiungere risultati che danno per scontato tu riesca a raggiungere.

I multipliers non solo non tolgono energia (come la loro controparte che nel libro viene definita “diminisher”), ma la tirano fuori e la moltiplicano: adottano comportamenti supportivi, concedono libertà, spazio e autonomia, danno feedback orientati al miglioramento e non all’involuzione, fanno leva sui punti di forza anziché ancorarsi su quelli di debolezza e governano il proprio ego per metterlo a servizio (anche) della crescita altrui.

Partono dall’assunto che nelle organizzazioni o nelle società in cui operano “ci sia molta più intelligenza rispetto a quella che usiamo” e si adoperano per tirarla fuori.

I multipliers sono definiti da un set di comportamenti preciso: non operano e non pensano come gli altri e la loro presenza alza notevolmente la percentuale delle persone realmente coinvolte nel proprio lavoro (purtroppo, secondo uno studio Gallup chiamato “State of Global Workplace”, ferma al 13%).

Fanno da contraltare ai “diminisher” (più noti come “micromanager” o “prosciugatori di intelligenza” ): persone di cui conosciamo fin troppo bene le caratteristiche e che sono responsabili degli ambienti per come li conosciamo.

Quello che più mi ha colpito di questo testo (oltre alla dicotomia fra le due figure), è stata la considerazione che la maggior parte di noi è un “diminisher accidentale”: qualcuno che adotta inconsapevolmente pratiche di micromanagement che lo allontanano dal diventare un “multiplier”.

In sintesi, oltre a proporre interessanti riflessioni sulle caratteristiche di entrambe le categorie, l’autrice ci fa riflettere su come una revisione profonda del nostro modo di operare, il coraggio di prendere consapevolezza e la volontà di fare un cambiamento radicale, possano portarci da “diminisher accidentali” a efficaci “multipliers” (incrementando la produttività e il benessere dell’ambiente in cui viviamo).

Occhio a chi dice “non so cucinare”…

Il libro “Mindset” di Carol Dweck, distingue fra due tipi di sviluppo della mentalità: chi ne ha una “fissa” e chi ne ha una “dinamica”.

La prima si sviluppa crescendo nella convinzione che ci sia un set predefinito e immutabile di cose che si sanno o non si sanno fare, la seconda si sviluppa invece credendo che quello che non si sa fare possa essere appreso o migliorato (predisponendosi così alla pratica deliberata e all’apprendimento).

La persona con una mentalità fissa dice con più facilità che “non sa cucinare”, quella con mentalità dinamica dice più probabilmente: “non sono un esperto ma ci provo”.

Coloro che hanno una mentalità fissa hanno bisogno costantemente di dimostrare il proprio valore e temono le persone migliori di loro perché credono che lo saranno per sempre; chi invece ha una mentalità dinamica non guarda gli altri per un confronto ma solo per migliorare se stesso (accettano che ci sia qualcuno migliore di loro ma lavorano per avvicinarsi al loro livello).

Che si parli di persone o di aziende, in NeNet lavoriamo solo con chi ha una mentalità dinamica ed aperta ad apprendere con modalità innovative.

L’offerta formativa completa sarà disponibile fra 15 giorni sul sito www.nenetcompany.com (su cui è già possibile iscriversi per ricevere qualche “anteprima”).

P.s: l’aneddoto culinario e l’associazione con il testo Mindset è stato tratto dal libro “office of cards” di Davide Cervellin

La prima parte della nostra vita la passiamo quasi tutta nel disagio..

È il tempo in cui ci sentiamo spesso fuori luogo, fuori tempo e “fuori tutto”.

Poi per alcuni di noi arriva il tempo della consapevolezza in cui “tutto cambia senza che niente cambi”…

È il tempo delle piccole o delle grandi cose, in cui cominciamo a realizzare che tutto quello che vogliamo dalla vita e che chiamiamo “felicità”, si traduce semplicemente con lo “stare bene con se stessi” in qualsiasi contesto.

Stare bene con se stessi è un concetto relativo: per alcuni si traduce nello star comodi sulla leggerezza di un bene materiale e per altri nello star comodi sotto il peso della propria coscienza.

Per alcuni è potersi vestire in base alle proprie preferenze e per altri indossare vestiti importanti o adatti per ogni occasione.

Per alcuni è avere un impatto nella società, per altri è averlo per se stessi o per i propri cari… per altri ancora è riuscire a fare sia l’uno che l’altro.

La verità è che non c’è una regola giusta ma per tutti vale l’aforisma di Bernard… a patto di conoscere a fondo il significato di “stare bene con se stessi” (cosa per cui servono anni di disagio, duro lavoro e fior di professionisti che si prendono cura di noi).

PS: sullo sfondo parte della “biblioteca della felicità”: collana di 20 volumi del Corriere della Sera (edita nel 2021)

Cercate sempre un “compagno di nuoto”…

Nel corpo dell’esercito americano c’è un gruppo speciale dei SEALs che si chiama “uomini rana”: sono subacquei altamente addestrati per operazioni militari di ricognizione, recupero ed attività antiterrorismo.

Per attività in cui si rischia la propria vita (e quella dei compagni), è fondamentale che ogni uomo rana abbia almeno un “compagno di nuoto”.

Il “compagno di nuoto” è colui che in acqua è sempre pronto a darvi la bombola se finite la vostra, a districare i nodi se vi impigliate in una rete o a respingere minacce indesiderate.

Se vi lanciate col paracadute è colui che lo controlla per voi prima del lancio, che si assicura che lo apriate all’altitudine giusta e che atterra con voi in territorio nemico.

Nella vita e nel lavoro avere uno o più “compagni di nuoto” è fondamentale per avere un confronto, un conforto, un supporto, un mentore, un coach o qualsiasi altra cosa sia necessaria per dare il meglio di sé e mitigare gli effetti di decisioni sbagliate (quando capita di prenderle).

Avere un “compagno di nuoto” è anche estremamente stimolante ed emotivamente fondamentale: serve a essere sempre centrati, a guardare le cose da un’altra prospettiva e ad avere le spalle coperte.

Un “compagno di nuoto” serve nei momenti di difficoltà ma anche in quelli di successo perché parafrasando Oprah Winfrey “è quella persona che ti accompagna in limousine ma che sarebbe disposta a prendere l’autobus insieme a te quando la limousine ti lascia a piedi”.

Non è necessario che i “compagni di nuoto” siano amici: è sufficiente che siano persone disposte a fare quello che voi sareste disposti a fare per loro in un rapporto di reciproco scambio: qualcosa che nel mondo del lavoro sembra molto difficile trovare ma che è fondamentale per qualsiasi forma di “successo”.

P.S.: In NeNet abbiamo costruito una comunità professionale fatta da ambienti e “chum” in cui ci sono alte probabilità di trovare “compagni di nuoto”: se sei appassionato di formazione e crescita personale puoi seguire la pagina LinkedIn e iscriverti alla nostra community su www.nenetcompany.com

Gioventù bloccata (#46/2023)

“Forse non è a scuola che impariamo per la vita, ma lungo la strada di scuola”.

…questa frase di Heinrich Boll, spiega in parte perché si ha la sensazione che l’Italia “non sia un paese per giovani” e perchè in ambito formativo ed educativo si sia rimasti indietro anni luce rispetto a ciò che succede in società all’avanguardia (o in quelle che lo sono meno ma che nel frattempo si sono attrezzati per diventarlo).

La gioventù è “bloccata” e i numeri sono poco interpretabili: circa 3 milioni di “neet” (persone che una volta usciti dalle scuole non si formano e non cercano attivamente un lavoro) e una società “immunodepressa” che non solo non offre una formazione adeguata a chi si affaccia nel mondo del lavoro, ma non offre neanche opportunità concrete, caldeggiando spesso narrative irrealistiche su modelli di successo inarrivabili.

Stipendi sempre più bassi, affitti sempre più alti e prezzi da pagare altissimi per vivere nelle uniche città italiane in cui sembra esserci ancora un po’ di speranza, sono solo alcune fra le cause che stanno all’origine della mancanza di quella “benzina” che serve per spronare le giovani generazioni a mettersi in moto e a fare quello che le generazioni precedenti hanno sempre fatto.

Ad aggravare la situazione, la netta sensazione che nonostante gli sforzi immani che si prefigurano, quella che si può ottenere sia solo un’incerta possibilità di costruirsi un futuro in un contesto volatile, incerto, ambiguo ed estremamente complesso.

Perché molti giovani non trovano lavoro?

E perché quando lo trovano fanno tanta fatica a essere assunti?

Quali sono i principali fattori che generano discrepanza fra il mondo del lavoro e le generazioni che dovrebbero decretarne il futuro?

Come mai le aziende lamentano di non trovare le persone giuste in certi ruoli?

Sono tutte domande complesse a cui non è facile dare una risposta se non attraverso dati, riflessioni e osservazioni su fenomeni complessi e considerazioni ad ampio spettro sulla situazione della competitività del nostro paese a 360 gradi.

Gioventù bloccata, vincitore del premio letterario di saggistica Economia e sociale del Sole24ore, è un’inchiesta sulla questione giovanile in Italia: un testo ricco di numeri, prospettive e spunti riguardo a quella che può essere considerata a pieno titolo, una delle più grandi urgenze per il futuro del nostro paese.

Confronto fra generazioni: quando follower e titoli non contano più…


Un po’ di tempo fa avevo raggiunto su LinkedIn circa 10.000 follower: un risultato che orgogliosamente avevo provato a condividere con mio figlio, ricevendo per tutta risposta la seguente sentenza: “Vabbè babbo, Lyon ne ha 5 milioni e Favij quasi 10..”

Lyon e Favij sono solo due degli youtuber che vengono adorati dalla generazione di mio figlio: possono piacervi o no ma sono “personaggi pubblici” con un notevole “appealing” (e altrettanto seguito).

Spesso ci crogioliamo in quelli che pensiamo essere dei buoni “traguardi”, senza fermarci a riflettere sufficientemente sui modelli di riferimento delle generazioni che a breve popoleranno le aziende influenzando pesantemente i nostri contesti.

Ovviamente è una provocazione e qui non è importante tanto il “contenuto” quanto l’urgenza del confronto fra prospettive diverse.

Noi continuiamo a credere che una laurea, i titoli o le targhette che ci sono costati fatica ci salveranno… e che quello che abbiamo imparato sul mondo del lavoro di ieri possa avere una qualche valenza in quello di domani.

Ma per quanto ci dispiaccia, un titolo, qualche decina di migliaia di follower (che volendo puoi anche comprare) o un ruolo da dirigente (magari assegnato per “decreto regio”), non saranno più sufficienti a rendere attrattivo il mondo del lavoro.

Non basterà dare ai giovani uno stipendio fisso o promettere loro una “visibilità” all’interno di un’organizzazione o una “manciata di dediti followers”.

Non varranno più le promesse, i pochi spiccioli per “sangue, sudore e lacrime” e neanche quelle pacche sulle spalle che funzionavano con noi e che ci spingevano a “fare” come se non ci fosse stato un domani.

Adesso la scelta è dire “si stava meglio quando si stava peggio” (come dicevano i nostri genitori quando i giovani eravamo noi), oppure cercare di comprendere come “lavorare insieme” seguendo logiche che non capiamo (peraltro frutto degli effetti collaterali della società che noi gli abbiamo costruito).

E’ uno dei più grandi dilemmi per le organizzazioni di oggi che vogliono sopravvivere anche domani, ma è anche un’opportunità e uno stimolo per cercare un dialogo con chi dovrà costruire un futuro che noi non siamo neanche in grado di immaginare.

In NeNet facciamo laboratori di “re-shuffling” fra generazioni e giornate in cui mettiamo sul tavolo prospettive diverse per co-progettare quello che ancora non esiste: esperimenti di “contaminazione” generazionale su cui ha scritto un bellissimo testo anche Giulio Xhaet (“contaminati” edito da Hoepli Editore).

PS: in foto uno dei pochi luoghi di “incontro” fra generazioni diverse e la lezione che per andare avanti a volte bisogna provare a tornare un po’ indietro… con umiltà, curiosità e voglia di “rimettersi in gioco”.

8 motivi per cui non dovreste invidiare un CEO, un imperatore o un’imperatrice…

Sono stato in visita al palazzo di Schonbrunn a Vienna ed entrando nella bellissima residenza imperiale, ho fatto alcune considerazioni in merito allo stile di vita di persone apparentemente “invidiabili”.

L’imperatore Francesco Giuseppe ha dominato l’impero austro-ungarico fino al 1916 ma viveva una vita molto distante da quella su cui si poteva fantasticare affacciandosi fra le cancellate della sua sontuosa dimora.

Ecco 8 buoni motivi per non invidiarlo:

1) Aveva molti servitori ma era servo di moltissime cose (materiali e immateriali);

2) Ogni santo giorno doveva seguire procedure, cliché e prassi che erano già obsoleti alla sua epoca e che, nonostante tutto, non aveva la possibilità di cambiare;

3) Lavorava come un matto ed era circondato da persone che non avevano nessun interesse a dirgli la verità;

4) Aveva un sacco di beni ma la maggior parte di questi gli portava più pensieri che soddisfazioni;

5) Non poteva dire quello che pensava né tantomeno quello che provava praticamente in nessuna circostanza (il che creava una forma di schiavitù che doveva essere piuttosto “insostenibile”);

6) Non poteva frequentare persone che gli piacevano ma era limitato a quelle che la sua carica e il suo titolo gli imponevano;

7) Era soggetto a continui gossip e aveva riporti sempre pronti a fargli le scarpe per ottenere qualche vantaggio personale;

8) Aveva la responsabilità di migliaia di persone molte delle quali non avevano la più pallida idea degli oneri che si nascondevano dietro il suo “status”.

Con una vita così strutturata è facile immaginare quanto la sua salute mentale fosse compromessa e quanto le sovrastrutture che gli venivano imposte lo rendessero “ricco schiavo” di un sistema che non poteva governare.

Adesso gli imperatori e le imperatrici non ci sono più, ma avendo “servito a corte” per un breve periodo e occupandomi di Executive coaching, posso garantire che molti CEO o VP di grandi aziende non se la passano molto diversamente (nonostante il posto riservato e “carrozze” da 200 cavalli).

La verità ha sempre molte sfaccettature e non tutto quello che luccica è oro: ricordarselo serve a rendere più leggera e realistica l’esistenza di tutti…. e soprattutto serve a non rincorrere falsi miti che spesso è decisamente meglio non raggiungere.

Ben Parker diceva che “Grandi poteri comportano grandi responsabilità”: a volte talmente grandi da non essere “invidiabili”…