Amministratori auto-delegati…

Fino a qualche anno fa, i “CEO” erano amministratori delegati di grandi aziende, corporate o multinazionali.

In una carriera molto fortunata avreste potuto conoscerne di persona solo qualcuno.

Poi è arrivata la digitalizzazione e tutti sono diventati “CEO”..

In America il termine è usato comunemente da chi ha una start up perché gli investitori vogliono sapere “chi è che decide”, ma in Italia la parola “CEO” è diventata un abuso comunemente utilizzato anche se l’azienda è fatta da una persona o poco più..

Il numero di società in Italia è calato ma i “CEO” sono spuntati come funghi.

La necessità di occupare un posto nell’attenzione dell’altro in una giungla affollata in cui è difficile distinguere le vere “competenze”, si è trasformata in una corsa collettiva ad accaparrarsi un titolo inappropriato.

Serve davvero definirsi CEO (“amministratore delegato”), anche quando la presunta delega è collegata a stessi?

Se apriamo una partita Iva come il barbiere sotto casa o fondiamo un’azienda di pochi intimi, il nostro titolo può essere equiparabile a quello di chi è a capo di una società che opera all’estero con centinaia di dipendenti e un consiglio di amministrazione strutturato?

Quanto è rilevante il titolo per dimostrare agli altri di avere una posizione?

Quanto serve davvero per elevarci dal punto di vista umano o professionale?

Quanto contribuisce a vendere le nostre competenze e quanto invece lo usiamo per darci un tono e avere l’illusione di apparire rilevanti?

Un titolo altisonante è utile a far capire agli altri quello che facciamo o alimenta solo l’ego, la voglia di riscatto o un vuoto interiore?

E’ solo una provocazione ma sono domande importanti che molti dovrebbero farsi prima di nominarsi “CEO”.

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