Siamo davvero diventati tutti CEO?!?

Nel 2020 c’è stata un’accelerazione delle nascite di amministratori delegati e di managers.. nonostante sia teoricamente aumentato il tasso di mortalità delle aziende (-390.000 imprese a fronte di sole 85.000 nuove aperture solo nel settore della vendita secondo uno studio di conf-commercio).

Ma una domanda sorge spontanea: abbiamo davvero tutta questa esperienza?!?

Come ci salviamo dalla distorsione delle informazioni digitali? La soluzione potrebbe esserci: una mappatura digitale dei professionisti che con verifiche incrociate (e qualche “incursione” nella nostra privacy), fornisca informazioni ben oltre titoli scritti e background formali…

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E’ innegabile che nel 2020 abbiamo assistito a due pandemie: quella dei virus e quella di General Manager e CEO

Questa proliferazione “in controtendenza”, dovuta alla necessità di lucidare il proprio percorso professionale, è indubbiamente agevolata dalla scarsa possibilità di controllo delle informazioni in ambito digitale..

Il fenomeno è simile a quello della generazione delle fake news: ognuno può dire la sua, inserendo informazioni delle più varie e trasformando l’uso improprio di terminologie ed acronimi in una distorsione (ancorché in buona fede) della propria storia professionale.

Un problema, quello della distorsione delle informazioni, la cui soluzione potrebbe risiedere all’interno dello stesso ambiente digitale che ha creato questo fenomeno: nell’intelligenza artificiale e nei “minatori dei big data” ovvero in qualcosa che in modo automatico, rapido e veloce potrebbe fornire profili e caratteristiche reali di una persona ben oltre il suo formale “background”..

Un tema controverso e spinoso, che coinvolge privacy e legittimità all’accesso di dati sensibili, ma che rappresenta un futuro che non potremo evitare (e che, fra le perplessità, ha anche aspetti positivi).

 Il problema e la sua genesi

La crisi ha sbilanciato ulteriormente l’equilibrio fra domanda ed offerta di servizi professionali, mettendo in difficoltà sia chi offre (spingendolo a “vendersi di più” sotto la pressione della concorrenza), sia chi cerca (sovrastandolo con una montagna di dati difficilmente gestibili).

La necessità di rendere appetibili i propri prodotti è sempre stata una costante del mondo del consumismo e non fanno eccezioni le offerte di servizi professionali..

Ma mentre nel mondo dei prodotti, si stanno da tempo prendendo contromisure contro gli effetti del marketing spinto e dell’eccessiva sovrastima delle qualità di quanto offerto (grazie a recensioni o piattaforme in grado di indirizzarci maggiormente verso quello che cerchiamo), non sono stati fatti passi in avanti analoghi per quanto riguarda il “mercato dei professionisti”..

E’ così che, mentre per i prodotti possiamo contare su una rete informativa maggiore (di recensioni, di esperienze di altri consumatori, di feedback qualitativi e così via), non c’è ancora una mappatura adeguata delle figure professionali.

In un mercato digitale non regolamentato, dove chiunque cerca legittimamente di migliorare il proprio “personal branding”, possono nascere pertanto deviazioni improbabili dovuti alla mancanza di un controllo che da una parte “vincola” ma dall’altra “protegge”..

E’ nato così quel fenomeno di proliferazione di CEO e di competenze “virtuali” che da paese di “santi, poeti e navigatori” ci ha reso un paese di General Manager..

Tralasciando l’abuso eclatante del titolo di CEO (che da traduzione del più comune “amministratore delegato” presupporrebbe come minimo una delega formale da parte di un consiglio di una società per azioni o altra forma organizzata), il problema è esteso a molte altre categorie professionali … che con i loro titoli ad effetto ed in assenza di feedback strutturati, nascondono o mettono in secondo piano la vera esperienza di un professionista.

Succede pertanto che in un mondo affollato di CEO digitali (o di GM, di CFO, CTO, COO), dove con due/tre digit sulla tastiera si entra nell’olimpo del management, risulta sempre più difficile risalire alle reali capacità di una persona.

Questo non solo costituisce un problema per chi cerca un professionista (e deve muoversi in mezzo ad un mare pieno di dati sporchi e con una mole di informazioni tale da nascondere quelle realmente significative), ma penalizza anche chi offre conoscenze specifiche e specialistiche (facendo scomparire le vere competenze all’interno di un sistema confuso e confusionario).

Una futuribile soluzione

Sebbene la soluzione per mitigare l’eccessivo “stretch delle competenze” sia ancora lontana, l’utilizzo coscienzioso dell’intelligenza artificiale potrebbe consentire una migliore profilatura di un professionista, mettendo a disposizione una quantità di dati che vanno ben oltre i titoli a tre lettere che ognuno di noi ha la facoltà di mostrare.

Non è da escludere infatti che quello che stiamo già sperimentando nel mondo dei prodotti (che sfrutta i nostri clic ed i nostri dati per profilarci come consumatori), possa essere esteso anche al mondo professionale, attraverso una mappatura non solo delle nostre “performance” (attualmente troppo soggette a metriche facilmente manipolabili) ma anche dei nostri comportamenti..

L’infiltrazione del digitale in ogni passaggio della nostra vita potrebbe quindi essere utilizzata anche nel mondo del lavoro… cominciando con il vaglio delle nostre preferenze nello stile di comunicazione (quante mail inviamo e quali parole utilizziamo), passando per l’analisi dei nostri contenuti, fino ad arrivare alla valutazione del nostro grado di affidabilità con clienti, colleghi e “stakeholders”.

Grazie alla completa digitalizzazione della maggior parte degli strumenti che utilizziamo, tutto potrà essere tracciato, monitorato, schematizzato ed infine analizzato.. con livelli differenti che vanno dall’incrocio grossolano di dati semplici (il nostro titolo e la ragione sociale della nostra azienda), fino ad arrivare al trattamento di dati estremamente complessi (finalizzati all’analisi dei nostri “comportamenti”).

Al primo livello di raccolta dati, potremmo facilmente svelare la vera essenza di un titolo, scoprendo ad esempio il dettaglio di un percorso formativo o professionale e scoprendo se un “CEO” è amministratore delegato di una multinazionale in ascesa o un amministratore unico di una società individuale aperta due giorni fa…

Ad un secondo livello potremmo arrivare ad avere dati sull’effettivo operato di un professionista, valutando non solo le metriche “standard” (come ad esempio l’apprezzamento azionario che fornisce una stima qualitativa di un manager solo nel breve termine), ma anche parametri più globali ed orientati sulla visione di medio lungo periodo (come ad esempio la crescita dei propri teams, il grado di soddisfazione dei propri impiegati, i beni immateriali che non compaiono sul conto economico e così via).

Infine, ad un livello ancora maggiore potremmo analizzare dati su fallimenti e successi, attitudini e peculiarità, sviluppo e crescita personale nel tempo… fino a mappare le soft skills e la propensione di un professionista a prendere un caffè con i propri collaboratori piuttosto che a pranzare unicamente con il proprio capo..

E così per tutte le figure professionali di cui si avranno a disposizione miriadi di dati..

I dati, compatibilmente con un concetto di privacy che cambierà radicalmente, potranno essere così puntuali da consentirci di valutare se quella risposta data a casaccio ad un collaboratore alle 9 di quel 25 Settembre sia stato un caso o frutto di una costante (e di un comportamento recidivo).

Ogni nostra competenza o esperienza potrà essere inserita in un database accessibile, dove tutti (o quasi), potranno verificare aspetti dei più variegati: ivi incluse le nostre “recensioni” da professionisti (rilasciate direttamente o indirettamente da tutti gli stakeholders incontrati durante il percorso lavorativo).

All’inizio non sarà semplice, ci saranno lotte e ritrosie, guerre fra sindacati e BOT e rivoluzioni contro qualcosa che tutti vogliono e tutti combattono: la trasparenza totale.

Non sarà una transizione né facile né indolore.. ma sul lungo termine avere a disposizione un enorme quantità di dati trattati opportunamente, potrà portare sperabilmente ad una gestione più equa delle risorse ed alla possibilità di individuare in modo più immediato e realistico una competenza acquisita sul campo.

Si apriranno dibattiti accesi sul nuovo concetto di privacy.. alla stregua di quelli che si sostengono per la revisione degli articoli della Costituzione.. ma la tecnologia andrà avanti e prima o poi ci chiederà di adeguarci allo stesso “nuovo standard” che attualmente sta provocando la rivoluzione più silenziosa del mondo delle vendite (in cui dati di ogni tipo vengono già collettati ed organizzati per ricercare clienti, offrire nuovi prodotti, customizzare l’offerta ed espandere il mercato).

E così come l’intelligenza artificiale oggi prende elementi dal nostro account Google, dal nostro profilo Youtube e da tutti i nostri social, un domani prenderà informazioni da sistemi digitali che anche all’interno delle aziende saranno sempre più aperti..

Avremo un identikit digitale anche per la nostra professione… e volenti o nolenti, il nostro background sarà molto più trasparente e difficilmente soggetto a distorsioni interpretative.

L’aspetto positivo (ma non sarà l’unico) è che fintantoché le “macchine” verranno istruite per analizzare i dati asetticamente (lavorando su algoritmi “etici” e “professionali”, avulsi dalle dinamiche ”umane”), non potremmo più creare “fake news” o profili dove siamo tutti CEO… di qualche cosa…

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