Smart working: agli albori di un nuovo rinascimento

Lo smart working è la traduzione di “lavoro intelligente”: una dimensione in cui luoghi e tempi perdono di significato a favore di un’autogestione che, in linea teorica, dovrebbe dare più spazio alla creatività del singolo nell’espletamento delle proprie mansioni lavorative.

Il rinascimento è stato uno dei periodi più creativi e prolifici della storia dell’umanità ed è stato caratterizzato da una pressoché totale assenza sia del concetto di “orario di lavoro” che di quello di “luogo di lavoro”.

L’accostamento in tempi di crisi economica (e di identità) è piuttosto azzardato.. ma le similitudini sono molteplici ed è molto probabile che le generazioni future abbiano una prospettiva migliore della nostra…

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La rivoluzione del lavoro intelligente: da dove veniamo e dove stiamo andando, il ruolo dello smartworking e le sfide che ci aspettano

  1. PERCHE’ SIAMO DIVENTATE DELLE MACCHINE..

Nel rinascimento la vita lavorativa e quella privata erano tutt’uno: nelle botteghe artigiane non solo si produceva ma si conviveva, si banchettava e si svolgevano attività ludiche.

Il tempo era un concetto relativo, la vita scorreva con molta meno frenesia ed i luoghi di lavoro non erano così segregati come nell’era industriale.

La commistione fra socialità e lavoro produceva risultati eccellenti: si lavorava alacremente ma in maniera più rilassata e soprattutto più conforme ai bioritmi della singola persona.

I professionisti erano multidisciplinari e difficilmente si specializzavano (e se lo facevano non lo facevano secondo la concezione moderna).

Di contro il benessere era appannaggio di pochi e per estenderlo ad una quantità di persone via via crescente, vennero in aiuto due personaggi come Taylor e Ford (che da pionieri delle moderne catene di montaggio e della massificazione di beni di lusso, decretarono l’inizio dell’era industriale).

L’avvento dell’era industriale cominciò a premere sui ritmi lavorativi e ad incanalare tutto verso una dimensione di massima efficienza, portando una accelerazione della vita ed una divisione netta fra gli ambienti di lavoro, quelli familiari e quelli deputati allo svago.

La produzione in serie imponeva le sue regole per rispondere alle esigenze di una di un ceto medio in fortissima espansione: il boom economico ed un marketing aggressivo contribuirono ad accelerare questo processo, spingendo le fabbriche a standardizzare ed efficientare qualsiasi fase del processo produttivo, specializzando al massimo le risorse, consentendogli meno gradi di libertà ed implementando procedure a prova di errore.

Il passaggio cruciale da produzione artigianale a produzione industriale, segnò di fatto un cambiamento culturale profondo, che modificò le abitudini delle persone, creando velocità, disponibilità di beni e ricchezza da un lato, ma anche un’ingente quantità di stress ed una profonda perdita di valori dall’altro.

Per molti decenni questo nuovo “mindset” ha portato enormi vantaggi, quali un innalzamento generale della qualità della vita e la possibilità di acquistare a buon mercato una varietà incredibile di prodotti volti a soddisfare qualsiasi esigenza.

Finchè non è arrivata la crisi economica… e con essa quella esistenziale ed una sostanziale ridefinizione delle priorità del singolo: tutto ad un tratto lavorare 14 ore al giorno per avere un posto riservato in azienda o comprare un gadget con cui giocare negli scampoli di tempo rimasti, non è stato più al centro dei desideri né delle nuove generazioni né di quelle che in questo mondo ci sono cresciute.

La tecnologia, la globalizzazione spinta e le ultime contingenze pandemiche hanno spinto ulteriormente questa tendenza, portando molte persone a rivedere l’intero set dei propri valori ed a rimettere in discussione modi di lavorare non più allineati con il nuovo concetto di “progresso”.

Quello che è tuttora un cambiamento radicale in atto (pari a quello che avvenne nel passaggio dal rinascimento all’era industriale), pone al centro la ricerca verso un maggiore equilibrio ed una maggiore consapevolezza sull’importanza di riappropriarsi di spazi personali dati in affitto in cambio di uno stipendio fisso e di una sicurezza sempre più instabile.

 Gli individui, salendo progressivamente verso l’apice della piramide di Maslow, stanno sempre di più inquadrando la propria realizzazione personale con la riacquisizione del proprio tempo libero e di quello che oggi viene chiamato il “work-life balance” (oltretutto identificato, a ragione, come pre-requisito fondamentale per aumentare la propria produttività).

Sta cambiando il “purpose” stesso dell’essere umano e con esso lo stile di vita ed il concetto di felicità… in una direzione che sembra riportare indietro a quell’epoca rinascimentale dove i ritmi (per chi se lo poteva permettere), erano più rilassati e maggiormente in linea con una vita “equilibrata” (o “sostenibile”).

2) IL RUOLO DELLO SMARTWORKING..

Il ruolo dello smartworking è quello di accelerare questo processo di profondo cambiamento, dando a disposizione strumenti per la propria autogestione e consentendo al singolo di gestire i propri tempi compatibilmente alle proprie caratteristiche, volontà e condizioni al contorno.

Lo smart working, per sua genesi, rimuove molti dei vincoli di uno stile di vita fatto di tempistiche precise, ritmi forsennati e stress indotto dai molteplici impegni che richiedono una mobilità spesso incompatibile con le nuove esigenze.

Lo “smart worker” ha la facoltà (compatibilmente con la propria mansione e la cultura dell’azienda per cui lavora), di riprendersi un po’ di quelli spazi che erano tipici dell’uomo rinascimentale… che viveva la propria quotidianità in prossimità della propria bottega, mischiando momenti di vita privata a momenti conviviali e lavorativi (e soprattutto non rispondendo a quelle regole delle catene di montaggio che imponevano di suonare il campanello per andare al bagno..).

Poter gestire il lavoro in autonomia grazie agli strumenti informatici che consentono di fare il lavoro intellettuale da remoto, rimette l’uomo al centro della propria vita… richiamandolo però anche ad una importante assunzione di responsabilità che è quella di re-imparare a gestirsi.

3) LE SFIDE CHE CI ASPETTANO..

Per chi viene dall’era industriale (come i baby boomers e la generazione X), è alquanto difficile immaginare un futuro lontano dalla fabbrica, dal capo-ufficio o dal direttore di stabilimento.

E’ altrettanto difficile imparare a gestire i propri tempi dal momento che fino a ieri questi erano monitorati, cronometrati e scanditi dalle procedure di un’organizzazione che aveva come unico scopo quello di produrre nel minor tempo possibile, nella maniera più standardizzata possibile e lasciando meno spazio possibile a creatività ed inventiva.

E’ un modello che ha funzionato e che è perfetto in un mondo relativamente stabile: uno stereotipo che ha permeato talmente tanto la nostra cultura ed il nostro modo di vivere che la sola idea di abbandonarlo produce l’ansia indotta dall’improvviso passaggio ad una diversa modalità.

E’ incontrovertibile che riappropriarsi della autogestione sia in definitiva vantaggioso.. il problema vero è riuscire a distaccarsi dalle vecchie logiche che hanno cercato di standardizzare la cosa meno standard dell’universo: l’essere umano…

Lo smartworking è uno strumento… e come tutti gli strumenti bisogna imparare ad usarlo correttamente… ma una volta compreso, è un qualcosa che può rimettere le lancette indietro e consentire ad ognuno di noi di cercare e possibilmente trovare una dimensione più consona ai propri bioritmi ed al proprio stile di vita, mantenendo alta efficienza e produttività.

La generazione dei millennials (che non ha vissuto appieno l’era industriale pre-crisi), non vivrà la dimensione della sfida ma solo quella dell’opportunità: possiamo scommettere che nessuno dei nostri figli accetterà mai una posizione lavorativa che lo costringa a passare 5 giorni su 7 nel solito posto… per lo più con orari impostati e senza la flessibilità di gestire il proprio tempo in modo “smart”…

Per quanto riguarda la nostra generazione X (o quella dei baby boomers)…il futuro appare incerto e nebbioso sia per i motivi che ho spiegato (la cultura da cui proveniamo), sia perché associamo lo smartworking a questo periodo di costrizione che ci ha fatto passare dalla reclusione dell’ufficio a quella di casa: un qualcosa che ha ben poco a che fare con lo smartworking ma che dopo questo periodo transitorio lascerà solo la libertà di scegliere (e nuove opportunità che adesso non riusciamo a vedere..).

Considerando l’epoca da cui veniamo, la crisi economica persistente e la disabitudine a riappropriarci dei nostri spazi, risulta piuttosto difficile fare uno sforzo positivo di immaginazione che ci faccia vedere lo smart working come un ponte verso una società molto simile a quella rinascimentale..

Nel rinascimento la vita lavorativa e quella privata erano tutt’uno: nelle botteghe artigiane non solo si produceva ma si conviveva, si banchettava e si svolgevano attività ludiche.

Il tempo era un concetto relativo, la vita scorreva con molta meno frenesia ed i luoghi di lavoro non erano così segregati come nell’era industriale.

La commistione fra socialità e lavoro produceva risultati eccellenti: si lavorava alacremente ma in maniera più rilassata e soprattutto più conforme ai bioritmi della singola persona.

I professionisti erano multidisciplinari e difficilmente si specializzavano (e se lo facevano non lo facevano secondo la concezione moderna).

Di contro il benessere era appannaggio di pochi e per estenderlo ad una quantità di persone via via crescente, vennero in aiuto due personaggi come Taylor e Ford (che da pionieri delle moderne catene di montaggio e della massificazione di beni di lusso, decretarono l’inizio dell’era industriale).

L’avvento dell’era industriale cominciò a premere sui ritmi lavorativi e ad incanalare tutto verso una dimensione di massima efficienza, portando una divisione netta fra gli ambienti di lavoro, quelli familiari e quelli deputati allo svago.

Il passaggio da ritmi più lenti a ritmi più veloci richiese un cambio radicale di mentalità e profondi impatti nel modo di vivere delle persone.

Le catene di montaggio dovevano essere perfettamente oliate: movimenti precisi e prestabiliti, massimo controllo e niente deroghe sulla qualità.

La produzione in serie imponeva le sue regole e tutto veniva standardizzato mediante procedure, tempi e metodi (il che spiega molto bene la ragione per la quale si richiedevano gerarchie molto rigide ed un rapporto distaccato e poco incline ad un confronto con i propri manager).

Il passaggio cruciale da produzione artigianale a produzione industriale, segnò di fatto un cambiamento culturale profondo, che modificò le abitudini delle persone, centralizzando la vita nelle città e modificando l’urbanistica per essere funzionale alla produzione ed al nuovo modo di vivere (alimentato da un boom economico e da un marketing aggressivo che ci ha indirizzato verso un consumo spinto di beni materiali da accumulare serialmente e da sfoggiare come status sociale).

Per molti decenni questo nuovo “mindset” ha portato enormi vantaggi, quali un innalzamento generale della qualità della vita e la possibilità di acquistare a buon mercato una varietà incredibile di prodotti volti a soddisfare qualsiasi esigenza.

Ma con la crisi economica e la fine dell’euforia legata alla iper-disponibilità degli oggetti, le esigenze delle persone stanno cambiando: lavorare 14 ore al giorno per avere un posto riservato in azienda o comprare un gadget con cui giocare negli scampoli di tempo rimasti non è più al centro dei desideri né delle nuove generazioni né di quelle che in questo mondo ci sono cresciute.

 Gli individui, salendo progressivamente verso l’apice della piramide di Maslow, stanno sempre di più inquadrando la propria realizzazione personale con la riacquisizione del proprio tempo libero e di quello che oggi viene chiamato il “work-life balance”.

Il cambio culturale in atto pone al centro la ricerca verso un maggiore equilibrio ed una maggiore consapevolezza dell’importanza di riappropriarsi di spazi personali dati in affitto in cambio di uno stipendio fisso e di una sicurezza minata sempre di più dalla crisi economica.

Sta cambiando il “purpose” stesso dell’essere umano e con esso lo stile di vita ed il concetto di felicità… in una direzione che sembra riportare indietro a quell’epoca rinascimentale dove i ritmi (per chi se lo poteva permettere) erano più rilassati e maggiormente in linea con una vita “equilibrata” (o “sostenibile”).

Il ruolo dello smartworking

Il ruolo dello smartworking è quello di accelerare questo processo, dando a disposizione strumenti per la propria autogestione e consentendo al singolo di gestire i propri tempi compatibilmente alle proprie caratteristiche, volontà e condizioni al contorno.

Lo smartworking, per sua genesi, sta rimuovendo lacci e lacciuoli di uno stile di vita fatto di tempistiche precise, ritmi forsennati e stress indotto dai molteplici impegni che richiedono una mobilità spesso incompatibile con le nuove esigenze.

Lo smartworker ha la facoltà (compatibilmente con la propria mansione e la cultura dell’azienda per cui lavora) di riprendersi un po’ di quelli spazi che erano tipici dell’uomo rinascimentale… che viveva la propria quotidianità in prossimità della propria bottega, mischiando momenti di vita privata a momenti conviviali e lavorativi.

Poter gestire il lavoro in autonomia grazie agli strumenti informatici che consentono di fare il lavoro intellettuale da remoto, rimette l’uomo al centro della propria vita… richiamandolo però anche ad una importante assunzione di responsabilità..

Qualche sfida da affrontare

Per chi viene dall’era industriale (come i baby boomers e la generazione X), è alquanto difficile immaginare un futuro lontano dalla fabbrica, dal capo-ufficio o dal direttore di stabilimento.

E’ altrettanto difficile imparare a gestire i propri tempi dal momento che fino a ieri questi erano monitorati, cronometrati e scanditi dalle procedure di un’organizzazione che aveva come unico scopo quello di produrre nel minor tempo possibile, nella maniera più standardizzata possibile e lasciando meno spazio possibile a creatività ed inventiva.

E’ un modello che ha funzionato e che è perfetto in un mondo relativamente stabile: è anche un mondo che ha permeato talmente tanto la nostra cultura ed il nostro modo di vivere che la sola idea di abbandonarlo produce l’ansia indotta dall’improvviso passaggio ad una diversa modalità.

E’ incontrovertibile che riappropriarsi della autogestione sia in definitiva vantaggioso: il problema vero è riuscire a distaccarsi dalle vecchie logiche e riappropriarci di concetti che appaiono controintuitivi: tutto lo stress e la crisi esistenziale indotti dalle nuove modalità di lavoro dipendono essenzialmente dal legame ancora forte con una cultura che ha imposto regole e ritmi ben precisi a cui tutti ci siamo abituati.

Una mania di precisione, una frenesia e dei ritmi standardizzati per la cosa meno standard dell’universo: l’essere umano.

Ogni individuo ha le sue particolarità e per questo non è fisiologicamente né biologicamente nato per essere guidato da ritmi, tempi e procedure standard…

L’essere umano non è fatto per essere stressato e per raggiungere la sua massima performance (che è diversa da individuo ad individuo come il modo e le tempistiche per raggiungerla) deve liberarsi dai condizionamenti psicologici del passato… imparandosi a gestire come faceva l’uomo del rinascimento..

In un certo senso lo smartworking, a patto di riuscire ad autogestirsi, può rimettere le lancette indietro e consentire ad ognuno di noi di cercare e possibilmente trovare una dimensione più consona ai propri bioritmi, rallentando il ritmo di vita ma mantenendo alta efficienza e produttività.

Sfide ed opportunità

La generazione dei millennials (che non ha vissuto queste contraddizioni), non vivrà la sfida ma solo l’opportunità: e possiamo scommettere che nessuno dei nostri figli accetterà mai una posizione essendo costretto 5 giorni su 7 ad andare in un posto fisso con orari imposti e senza la flessibilità di gestire il proprio tempo in modo “smart”…

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