Quando fallire non basta: perchè le aziende non imparano (quasi mai) dagli errori

Capita spesso, dopo diversi anni, di avere a che fare sempre con gli stessi problemi…

Gli stessi per cui qualche anno prima “Tizio” aveva proposto una risoluzione che “Caio” aveva provato ad implementare ma che “Sempronio” aveva poi lasciato sulla scrivania..

Problemi ciclici che nonostante onerosi processi di “lesson learned” (lezioni imparate) non arrivano mai ad una risoluzione.. ricomparendo inevitabilmente dopo qualche anno come la polvere sotto il tappeto.

Perchè?!?

La ragione è semplice: non c’è una vera “cultura del fallimento” e le “lesson learned”, sono spesso una lista di problemi scritti per compilare una check list ma mai sviscerati fino in fondo.

Quello che dovrebbe essere nel podio delle cose da fare, è messo in coda e trattato alla stregua di “quegli sporchi lavori che qualcuno deve pur fare..”

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Le lesson learned e la cultura del fallimento..

Per “processare” i fallimenti e renderli lezioni utili a migliorare, c’è un processo che nelle aziende più evolute è chiamato “lesson learnt” (lezioni imparate): una volta riscontrato un problema che ha causato un “failure”, si riporta la causa e si fa un’analisi delle genesi, prendendo poi le contromisure necessarie per la risoluzione definitiva.

Questo processo a volte funziona ma molto spesso no… ed i motivi sono per lo più riconducibili alla cultura aziendale.

Ciò che dovrebbe riuscire a “far funzionare meglio le cose” semplicemente “non funziona” essenzialmente per 3 motivi:

1)     Non c’è una vera “cultura del fallimento”: si promuove il fallimento sulla carta ma non si riesce ad improntare un sistema per cui le persone si sentono “sicure di poter fallire”. I dipendenti non si sentono protetti perchè intimamente sanno che “riportare un problema che ha indotto un fallimento” può portare ad un giudizio più negativo che positivo.

Di conseguenza molti problemi non vengono sollevati..

2)     Non si guarda la “big picture”: anche quando si elencano i problemi, questi non vengono analizzati fino in fondo nelle cause che li hanno generati. Spesso questo avviene o per mancanza di tempo o perchè alcune cause potrebbero mettere in luce aspetti che riguardano l’organizzazione (e che qualcuno che può incidere sulla nostra carriera dovrebbe risolvere).

Si preferisce il micro (spostare il problema o fare finta di non vederlo) al macro (dare evidenza al problema fino a che non lo si è risolto indipendentemente dal livello gerarchico da coinvolgere).

3)     Non si interviene alla radice: le procedure difficilmente contemplano un team a supporto che prenda in carico le azioni da fare a fronte di un problema (e che soprattutto che sia misurato sui risultati).

Nelle grandi organizzazioni è più facile che ci siano persone che scrivono un’istruzione operativa per dire ad altri come descrivere il problema riscontrato, piuttosto che farsi carico di iniziative risolutive che potrebbero far guadagnare tempo e competitività.

Quello che manca è in definitiva un presupposto fondamentale: una cultura aziendale che favorisca il fallimento, che lo celebri come spunto per fare un salto in avanti (invece che percepirlo come un passo indietro) e che lo tratti come una risorsa utile ad evitare grattacapi che si perpetuano nel tempo.

Il processo di “lesson learnt” , dopo quello di selezione del personale, dovrebbe essere fra le cose più importanti da fare in azienda: rappresenta un’attività strategica che però ha senso solo se a monte c’è una cultura di apertura totale verso gli sbagli.

Qualcuno lo fa già: la Intuit (azienda americana di sviluppo software) ha indetto il “greatest failure award” (il premio per il fallimento più grosso) che viene assegnato durante il tanto atteso “failure party”: una festa per celebrare le opportunità di apprendimento….

..quando si dice “una questione di cultura”..

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