Le grandi dimissioni (#5/2024)

In molti siamo cresciuti col mito del lavoro, convinti sin dal grembo materno che il nostro mestiere fosse ciò che ci definiva e il fondamento della nostra dignità.

Abbiamo studiato duramente nella convinzione che “il lavoro nobilitasse l’uomo” e che titoli e posizioni fossero uno status in grado di posizionare una persona in una scala di valore più alta.

Ne siamo stati convinti e ne siamo convinti tuttora, tanto che il nostro valore è tutt’oggi misurato con metriche come lo stipendio, la posizione nell’organigramma o qualsiasi altro parametro considerato “di successo”.

Con questo in mente abbiamo creato una “società delle performance” che premia qualche cigno nero e crea milioni di frustrati.

E anche se sappiamo tutti che è un gioco “truccato” (chi scrive ha sicuramente avuto molte più possibilità di un omologo in Malawi e molte meno di un figlio di dirigenti), ci siamo convinti che “volere è potere” e che ci potessero essere possibilità per tutti.

Ma il meccanismo si è rotto e la crisi ha portato a galla ciò che è stato per decenni deliberatamente nascosto: la carriera non è uguale per tutti, così come non lo è l’accesso all’istruzione di qualità e alle professioni più ambite.

Se ne sono accorte le nuove generazioni: cresciute senza la “fame”, ma anche senza prospettive solide o speranze in quella crescita che nel dopoguerra sembrava potesse essere “infinita”.

Le carte sono scoperte e se prima l’illusione poteva giustificare sacrifici enormi, oggi nessuno sembra più disposto a sottostare a regole tossiche che certi contesti lavorativi impongono.

Questo è all’origine delle “grandi dimissioni” e della nuova percezione che la dimensione lavorativa sembra assumere a causa di una crisi indotta da un capitalismo gestito male per troppi anni.

Un libro duro quello di Francesca C., che tuttavia mette in luce aspetti che ci aiutano a capire meglio i “perchè” dei fenomeni odierni di “disaffezione dal lavoro”.

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