Ma chi me lo fa fare? (#56/2023)


Dopo un anno di bulimia da lavoro, questa è la domanda che si pongono molte persone ingabbiate nei propri ruoli, nei propri doveri e in un mondo professionale ereditato da un sistema che sembra avere tutte le risposte alla realizzazione sociale.

Se lo chiedono anche i giovani, che in molti casi scelgono deliberatamente di diventare dei “neet” (persone che non studiano, non lavorano e non sono ingaggiati in attività di formazione).

E se lo chiedono anche tutte quelle persone che nonostante gli enormi sforzi per trasformare il proprio tempo in “denaro”, a fatica riescono a sbarcare il lunario o a trovare un senso di quello che fanno (che non sia la mera sopravvivenza).

Negli ultimi anni stiamo assistendo a una polarizzazione fra professionisti efficienti e dinamici (ma anche sovraccarichi, avviliti e spesso depressi) e persone disilluse da un mondo del lavoro in cui è difficile continuare a credere.

I primi sono oppressi e stressati per quello che fanno, ma anche rapiti e vittime di una sindrome di per cui non riescono a smettere; i secondi sono disillusi e schiacciati da una società che cerca di convincere che “se vuoi puoi”, ma che è ancora legata a logiche clientelari e alle élite del capitalismo vecchio stile.

Ma nonostante la distanza fra queste categorie sia in costante aumento, la sensazione di tutti è che il lavoro non riesca più a colmare le nostre lacune.

Mai come oggi, in un mondo post-pandemico che continua a narrare modelli irrealizzabili, lavorare e basta ci appare privo di senso o qualcosa che ha un prezzo troppo elevato rispetto a un’esistenza finita, limitata e assolutamente insignificante in rapporto al mondo che abitiamo (rispetto al quale la nostra vita è solo un battito di ciglia).

Siamo davvero ridotti a lavorare fino allo sfinimento per provare a colmare lacune che ci portiamo dietro dalla nascita?

Abbiamo davvero bisogno di dipendere così fortemente da qualcosa per avere un riconoscimento sociale o la prova di essere “persone di successo”?

Quanto costa un provvisorio senso di soddisfazione quando la sensazione per tutto il resto del tempo è quella di “non essere mai abbastanza”?

E quanto ci costano quei beni che scambiamo per “tempo”?

Quante sono le energie che spendiamo per acquisire uno status che spesso ci porta a bruciare tutto il resto?

E quindi, chi ce lo fa fare?

Chi ce lo fa fare di continuare a credere che il lavoro dei sogni arriverà e non ci sembrerà più di lavorare?

Chi ce lo fa fare di continuare a pensare che se ci impegnamo, prima o poi “ce la faremo”?

Chi ce lo fa fare di impiegare la nostra esistenza in attività che non sappiamo dove ci porteranno?

Domande scomode a cui non c’è una risposta semplice…. ma al cui interno si cela l’invito a mettere in discussione la nostra visione, comprenderla più a fondo, ribaltare la prospettiva e provare a immaginare un mondo in cui sia possibile cambiare.

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