Il racconto della maratona

“Un’esperienza di vita: qualcosa che qualsiasi persona su due gambe dovrebbe fare….almeno una volta..” (Il mio racconto della maratona di New York).

Maurizio è una persona straordinaria. Uno di quelli che conosci per caso e te ne invaghisci…: un “vulcano” su due gambe.

Per caso sono stato abbinato a lui come compagno di stanza in un albergo vicino a Central
Park, una di quelle che sembrano far parte più di una bettola del Bronx piuttosto che di un
albergo in uno dei luoghi più caratteristici della città.
Per caso ci siamo trovati a condividere un’esperienza unica, una di quelle esperienze che vivi
perché hai una motivazione dentro che neanche quelli che ti stanno più vicino riescono talvolta
a capire fino in fondo. Ed invece con Maurizio ci siamo capiti al volo.
Per caso il destino ci ha fatto incontrare, per caso condividiamo le stesse passioni.
Quasi la stessa età, vite diverse a chilometri di distanza azzerati da un evento di portata
mondiale dove trovarsi è impossibile anche se hai un GPS progettato dalla Nasa…
Maurizio mi ha accolto subito a braccia aperte nonostante fossi un perfetto sconosciuto che gli è
piombato in camera alle 2 di notte, per via dell’aereo che arrivava da Londra a quell’ora.
Per caso ci siamo ritrovati a condividere tutte le emozioni del pre-gara. Tutte (e sono state
tante..).
Per caso per qualche ragione non ha potuto correre con l’amica con cui avrebbe dovuto farlo.
Per caso abbiamo fatto quel lungo viaggio che porta alla partenza, scambiandoci
incoraggiamenti, pensieri ed anche qualche barretta energetica.
Sempre per caso poi è capitato che ci siamo trovati insieme allo sparo di cannone sul ponte di
Verrazzano dove il vento è forte e sei come una sardina in mezzo ad altre decine di migliaia di
persone.
Colpo forte. Partiti. Col cuore impavido di un pivello che pensa di spaccare il mondo ho
accelerato sull’onda del trasporto delle persone arrivate da tutto il mondo per vincere la loro
maratona (i Newyorkesi dicono che chiunque tagli il traguardo ha “vinto” la maratona di New
York).
La salita del ponte di Verrazzano è la prima, ma forse per questo è la più facile: le gambe che
non aspettavano altro che sgranchirsi dopo ore di attesa e mesi di preparazione.
“Vai piano Enrico che c’è tempo”… un refrain che avrei sentito fino al trentesimo chilometro
dove sarei probabilmente rimasto se non avessi deciso di seguire quel consiglio. Sì, perché la
maratona non è proprio come il mio sport. Nello sci dai tutto in un minuto e mezzo ed in quel
tempo devi usare muscoli, testa, cuore, valori e tutto quello che rimane perché non hai modo
di prendere il resto come al bar. Devi dare tutto in una manciata di secondi e ogni singolo
centesimo può fare la differenza..
Ma la maratona no. È una sfida di controllo, di strategia e di riflessione: anche qui arrivi alla fine
ed il “resto” non lo prendi, ma solo perché dopo 42km non ti è rimasto niente ancora da poter
dare.
Ma questo è quello che mi hanno raccontato, in fondo io sono solo alla prima maratona e non
so davvero come sarà correre 42.195 metri.
“Enrico rallenta”.
Ecco la sua voce. E mentre correvo più forte di lui guardavo sempre indietro perché sentivo
che avevo bisogno di quel freno e non lo volevo perdere. “Mau ci sei?”. Se non lo vedevo lui
alzava il braccio e mi urlava “Ci sono!”. E così sarà per molti chilometri.
Dopo il secondo miglio cominciano i ristori. Prendiamo acqua entrambi (“Mau ci sei?”. “Ci
sono”.) e corriamo verso Brooklyn ed oltre, in una giornata mozzafiato e non solo per via della
corsa. Ancora un chilometro. I primi dieci vanno lisci come l’olio sull’onda dell’entusiasmo..
A un certo punto dal nulla Mau se ne esce con una frase che mi gela:“Enrico mi scappa la pipì,
devo fermarmi al primo bagno dove non c’è coda”. Penso “Cazzo no….”, ma mi esce solo
un “Mau fattela addosso”.In questo dialogo fra matti lui mi risponde: “Non ci riesco”.

Penso: “Provaci, vedrai che quando ti scappa forte la fai, guarda che se ci perdiamo non mi
ritrovi più”.
“Enrico non forzare” mi dice lui e io rispondo “Tranquillo Mau” ma lo faccio sempre guardando
l’orologio con ossessione compulsiva di chi la maratona non solo la vuole finire, ma vuole anche
cercare quel qualcosa in più da raccontare ai nipoti. Andiamo avanti così fino ai 15.
I primi rifornimenti sono iniziati da un po’. Per i primi chilometri solo acqua ma ora i 10.000
volontari cominciano a distribuire anche i sali. Segno che la cosa comincia a farsi seria. La folla
ora è più copiosa, si vedono tantissimi striscioni, gente che canta e che balla, musica a palla,
quartieri mobilitati per seguire l’evento dell’anno. Orde di bambini che si accalcano sui
marciapiedi per porgerti un “cinque”… per darti un’incitazione od un altrettanto gradito pezzo di
banana. Arrivano i 21 km e la mezza passa senza quasi accorgersene.
“Come stai Enri?” “A posto Mau e tu?” “Tutto ok ma tu non forzare” mi dice lui, mentre noto che
a volte sembra fare un po’ fatica a seguirmi. Già da un paio di rifornimenti ci scambiamo
cortesie: la sosta rallenta ed uno dei due si ferma a prendere acqua anche per l’altro. Beviamo
un bicchiere in due, ogni miglio e mezzo, e sarà così fino alla fine.
Al 26° km si presenta Lui, il ponte del Queensboro: la prima salita maledetta che picchia duro e
ti ricorda che sei umano anche se a volte ti sei illuso di non esserlo. Il passaggio è sulla parte
bassa, c’è buio e la gente che prima correva accalcata, qui comincia timidamente a diradarsi
anche se di poco. Qualcuno si ferma, qualcuno cammina, molti rallentano. La salita è
interminabile e siamo a poco più di metà gara nella parte più semplice del tracciato (lo
scopriremo dopo). Per fortuna inizia la discesa e alla fine del curvone per immettersi sulla 1st
Avenue, arriva un boato da togliere il fiato. In un attimo si passa dal silenzio del sottoponte al
rinnovato e più forte frastuono della gente.
“Dai Enrico che c’è la facciamo” mi dice Mau, mentre io comincio a sentire il fiato che viene
meno. Non sono l’unico; tanti altri rallentano il loro ritmo iniziando a subire il colpo da quel ponte
che sembrava finire mai.
Maurizio vede il cambiamento, lo percepisce anche se la quantità di parole uscite dalla mia
bocca sono le stesse, le poche dei primi chilometri. Il messaggio del corpo non mente e la
concentrazione fa spazio alla stanchezza. “Sciogliti un po’!” mi dice facendomi cenno con le
mani allungando le sue verso il basso.
Un altro ristoro. Senza dire una parola Mau prende regolarmente acqua o sali per tutti e due.
Beviamo poco ma spesso. Me lo ripete come un mantra e sebbene sia lui ad essere rimasto
due passi indietro fino a qui, è sempre lui che si stacca per allungare il braccio e prendere
quello che c’è. Si perché penso che il rifornimento mi rallenti ed io non voglio perdere un
secondo, sono ancora in preda alla smania di fare bene. “Mau ci sei?”. Quante volte l’ho
ripetuto cercandolo compulsivamente dietro di me con il timore che non ci ritrovassimo più. Ma
Mau era lì, più o meno indietro ma sempre lì, con me sempre a cercarlo con lo sguardo quasi
come a dire “Oh, sta cosa voglio che la facciamo insieme”. Il filo che ci lega è troppo bello ed
adesso ce la dobbiamo godere fino alla fine.
“Ci sono” mi dice ogni volta che giro lo sguardo per riacciuffarlo fra le decine di volti diversi che
ci circondano.
All’improvviso torna quella frase che non avrei voluto sentirgli dire; “Enrico mi scappa, alla
prossima devo davvero fermarmi un secondo”. Gli rispondo di nuovo deciso: “Mau, sei un
maratoneta, fattela addosso!” e continuiamo così per altri 2/3 chilometri. Ad un certo punto mi
volto e lo sento dire “L’ho trovato!”. Non ho tempo di dirgli nulla perché scatta sulla sinistra.
Pensavo che si riferisse al Sacro Graal, e invece mi accorgo che aveva solo trovato un bagno
libero a bordo strada. Non ho tempo di dirgli nulla perché in un attimo è già dentro, giro lo
sguardo verso la strada davanti a me, sono dispiaciuto ma determinato ad andare oltre. Penso
che Mau è forte e che potrebbe anche raggiungermi se non che la folla di corridori è enorme e
ritrovarsi una volta persi è come cercare un ago in un pagliaio.
Proseguo oltre verso il diritto della 1st Avenue: 5 km di saliscendi interminabili dove la fatica ti
spezza il fiato. Non ho tempo di terminarli perchè poco dopo quella dolorosa separazione sento

una voce che mi dice “You’ll never walk alone!”.. Sembra un film della Pixar: dietro di me vedo
di nuovo il mio compagno. Provo una bellissima sensazione, davvero una delle più belle che
abbia mai provato. Forza Mau, penso dentro di me, sei stato un grande e sei riuscito a
ritrovarmi fra quelle migliaia di maratoneti. Col suo cappellino simbolico dei mondiali del 2006
(poi mi avrebbe raccontato che lo usava per coprirsi la fronte calva mentre affrontava la sua “malattia”) mi
sorride con sguardo fugace e soddisfatto. Siamo di nuovo insieme e da questo momento sento
che non ci sarà più bisogno di chiedergli “ci sei Mau?”.
E menomale perché dal 30° km mi comincia a mancare fiato, gambe e tutto quello che
serve. “Dai Enri ci siamo, ancora qualche chilometro”. Sappiamo entrambi che è una bugia: ne
mancano tanti e saranno i più duri. La sfida comincia da qui. Ma fra un bicchiere di sali, un
incoraggiamento e la folla che ti acclama come se stessi tentando un’impresa titanica si arriva
alla fine della lunghissima 1stAvenue e si attraversa il Bronx prima di rientrare verso Harlem..
Manca solo un ponte da attraversare e una persona a bordo strada tiene un cartello con scritto
più o meno così: “Hey guys, this is the last damned bridge” (Questo è l’ultimo dannato ponte).
Lo attraversiamo e ci accoglie Harlem, con una folla che urla a suon di tamburi. “The last
damned bridge” mi ripeto mentre guardo Mau che ormai da un paio di km mi ha già affiancato,
sento che comincio a cedere sotto l’implacabile ritmo delle salite di New York.
Siamo ai 35 e Mau è già da un po’ che continua a prendere acqua, sali e cibo ed a dividerli con
me senza chiedermi niente. Ormai non c’è più bisogno di parole ed io forse non ne ho più
davvero. Cominciano i crampi alla gamba destra e mancano ancora più di 8km. Si arriva nel
punto peggiore che è la salita che arriva prima del rientro sul diritto di Central Park. Mau ha
ancora forze e fiato per ringraziare la folla mentre io quelle voci comincio a non sentirle più.
Altre volte in allenamento sono stato in crisi ma ora è diverso, ora ci sono i 36 km oltre i quali
non ero mai andato. Oltre ci sono i dolori lancinanti talmente forti che fai fatica a distinguerne la
provenienza. “Dai Enrico che ci siamo davvero”. Vorrei credergli. “L’ultima salita e ci siamo”.
Con intelligenza chirurgica non dice mai “l’ultima e siamo arrivati” perché io mi sento che arrivati
lo siamo davvero, ma al capolinea e non alla finish- line. Distolgo l’attenzione dal dolore al
tricipite della gamba destra dovuto al principio di crampi. La salita li ha “leniti” un po’ ma un km
dopo, molto democraticamente, si fa sentire anche la gamba sinistra. Mi maledico. Se vengono i
crampi è tutto finito. Non ce la faccio non è un termine che uso ma stavolta ci sta tutto.
“Dai Enrico che ce la facciamo”. Mi viene da sorridere che il giorno prima facevamo il verso a
Gianni Morandi sulla stregua di “uno su mille ce la fa”. Ma adesso non si scherza ed il pensiero
passa in un attimo. “Dai Enrico dai…”
Maurizio è l’unico a sapere il mio nome e lo ripete allo sfinimento. La salita non finisce più, ho il
fiato corto e le gambe a pezzi, il piede che ora sente persino una scarpa allacciata troppo. La
spalla che urla per le contratture nonostante il nastro del fisioterapista. Non ce la faccio,sono già
due volte che me lo dico e non era mai successo in vita mia. Ancora salita. Un dislivello di
253mt. Nessun altra sfida è stata così.
Manca un chilometro. Maurizio comincia a godersi il momento e ringrazia la folla di nuovo. Ha
energie per tirare fuori anche una action cam e pochi metri dopo persino la bandiera italiana.
Sono gli ultimi metri. Ormai quel “ci siamo” assume un sapore ed una forma che si porta dietro
mesi di sofferenza, preparazione, sudore, lacrime, tempo sottratto alla tua famiglia.
Ultimi 400 metri. Tiro fuori anche io la bandiera che è ora l’unica cosa che mi identifica a parte il
pettorale che mi porto dietro da ormai quasi 42km. Ci siamo davvero. Non ho forza di pensare,
non sento niente, se non il dolore puro. Mi rimangono però gli occhi per vedere Maurizio e la
bandiera, Maurizio e le sue battaglie, Maurizio e la sua malattia, le cure, gli ospedali, i pianti dei
familiari ed il suo cappellino dei mondiali in un letto di ospedale dove la folla non c’è e sei solo
con te stesso. Ma vedo anche quel Maurizio che da maratoneta è diventato pacer e coach, che
è stato guidato, ispirato e supportato e che ora fa la stessa cosa con gli altri.
Abbiamo concluso con lo stesso identico tempo. Mi ha aspettato come si fa quando si è grandi.
In camera mi dirà che anche lui sentiva di non averne più (sapendo di mentire).
Vedo Maurizio ed un secondo dietro vedo me: ce l’ho fatta pure io con le mie battaglie interiori e

la voglia di essere grande come lo è stato lui ora e in altre mille circostanze.
Oggi siamo stati grandi in due. Ci siamo trainati ed ispirati a vicenda. Così succede nelle grandi
squadre. Così succede fra persone che condividono qualcosa di più di una maratona.

Io e Maurizio studiando il traguardo la sera prima della maratona
Nel punto di ritrovo sotto il ponte di Verrazzano (2 ore prima della maratona)
La partenza…

42 Km e 195 metri dopo..

Gli ultimi metri

Description

Questo è il racconto della maratona scritto di getto in aereo durante il rientro  verso casa (lo trovate senza editing o correzioni...).

E' l'epilogo di un percorso di allenamento durato più di sei mesi e che culmina in una "staffetta" lunga 42Km vissuta con una persona incontrata per caso: Maurizio Romeo, sopravvissuto ad un linfoma nel 2006 ed impegnato attraverso il "running" in campagne solidali per chi sta lottando per la propria sopravvivenza.

Il racconto è stato pubblicato sul suo sito di "un passo alla volta", un'associazione che supporta una raccolta fondi per i malati di cancro.